10 Novembre 2001

Adolf Hirémy Hirschl. Classico o moderno?

di Emanuele Bardazzi

A prima vista l’aspetto più “ufficializzato” della produzione di Adolf Hirschl può presentarsi non sempre di pronta assimilazione, controverso e a tratti quasi indigesto – soprattutto per certi retaggi pompier – anche a chi ama molto il periodo tra ‘800 e ‘900, epoca nella quale la sua arte ebbe il pieno sviluppo: un’epoca che ci ha abituati del resto a comprendere tutte le sottili, intriganti e spesso difficili sfumature delle fasi di transizione, nel caso particolare tra lo storicismo ottocentesco e le nuove istanze della cosiddetta “modernità”. Tuttavia Primo Levi “L’Italico” già nel 1904, in occasione di una esposizione romana di Hirschl agli Amatori e Cultori, invitava “il buongustaio” ad accorgersi efficacemente “della sua mostra sì nobile, sì corretta, sì espressiva, tanto nel paesaggio che nella figura…”.

Di origini ungheresi, ma di formazione artistica viennese, Hirschl può essere assimilato a quella ultima generazione di Deutsch-Römers che approdarono in Italia sul finire dell’Ottocento, cercando nei lidi del Sud e nelle sponde latine i luoghi magici in cui perdersi e ritrovarsi.

Il nostro artista, che con quella venuta cambiò anche il proprio cognome in Hirémy, arrivò a Roma nel 1898, lo stesso anno in cui vi si stabiliva Otto Greiner, tedesco di Lipsia e profondo ammiratore di Klinger, del quale andò ad occupare lo studio nei pressi del Colosseo. Dieci anni prima si era trasferito nella “città eterna” Max Roeder, che aveva a lungo desiderato il viaggio in Italia contemplando i quadri con vedute e paesaggi mediterranei della Münich Pinakothek o della Schack Galerie, in particolare quelli di Böcklin. Nel 1902, dopo la vincita del “Gran Premio di Stato”, riusciva a giungere a Roma il prussiano Sigmund Lipinsky, che lì rimase, come gli altri, per tutta la vita.

Era un gruppo accomunato dal desiderio di fare tabula rasa di precedenti vicende artistiche ed esistenziali vissute in ambienti ufficiali e in vario modo costrittivi. Greiner era sfuggito al pesante clima accademico di Lipsia, dove un suo soggetto celebrativo per il compleanno di Bismarck era stato a suo tempo criticato per la presenza di un nudo maschile poco idealizzato e troppo realistico; il trasferimento a Monaco, dove si era avvicinato alla cerchia secessionista guidata da von Stuck, non era bastato a placare la sua sete di libertà, verità e bellezza naturale che avrebbe trovato solo in Italia. Lo stesso Lipinsky, che pur aveva goduto di importanti commissioni pubbliche, era mosso dal desiderio di liberarsi dai vincoli e dalle sovrastrutture del pomposo eclettismo guglielmino, per dedicarsi ad un’arte splendidamente sincera, spogliata dai vincoli celebrativi e storicistici, ma non per questo priva di statura e di elevato livello estetico. Anche per Hirschl il trasferimento in Italia coincise col bisogno di cominciare una nuova esistenza, dopo che uno scandalo – il matrimonio di rito protestante con una divorziata, Isa Rustov, figlia di un imprenditore inglese – aveva stroncata tutta d’un colpo una carriera iniziata con grandi riconoscimenti nello sfarzoso clima artistico della corte viennese, dominato dalla figura carismatica del “principe” dei pittori, Hans Makart.

Se da un lato viene apertamente riconosciuto ad Hirémy-Hirschl un progressivo allontanarsi dallo storicismo eclettico per accedere ad una visione aggiornata sugli sviluppi delle ultime tendenze europee e decisamente simbolista – per quanto di dimensione correntemente allegorica e mitologica, e senza mai abbandonare del tutto certe inflessioni baroccheggianti – dall’altro gli si rimprovera di non aver saputo operare quello scatto decisivo in chiave di moderna Avanguardia che riuscì invece a fare in Austria il coetaneo Gustav Klimt, che guidò la giovane Secessione Viennese e aprì poi la strada all’arte espressionista di Schiele e di Kokoschka.

Viene da chiedersi, confrontando gli sviluppi individuali degli artisti che abbiamo sopra ricordati – Greiner, Lipinsky, Roeder e Hirschl, tra loro simili, ma allo stesso tempo diversi e indipendenti – se sia stata proprio la loro venuta in Italia, vissuta all’inizio da ognuno come slancio liberatorio e in questo senso stimolo ad un sostanziale rinnovamento, a limitarne d’altro lato la potenziale evoluzione verso l’Avanguardia, allontanandoli dai punti focali del Modernismo e al contempo dalla crisi di civiltà dei rispettivi paesi d’origine, il morente impero asburgico nel clima da Finis Austriae o il rigido regime prussiano.

È come se la fuga in un paese vissuto come luogo d’abbandono e d’oblio, insediandosi nella nicchia privilegiata per eccellenza dei luoghi della classicità e del mito, li abbia sottratti al desiderio di misurarsi con le contraddizioni quotidiane e le contingenze del contemporaneo, le cui tensioni e turbamenti vengono stemperati e fatti affiorare solo in brevi accenni e momenti, in una vertigine romantica che dirompe nel pacato fantasticare dell’arcadia felice, in una fisionomia stregata e grottesca, in un’insidia sibillina.
Quindi, paradossalmente, quando anche in Italia cominciano ad emergere i fermenti delle Avanguardie espressioniste, cubiste e futuriste, il loro culto per il mito e la storia antica, l’armonia e la bellezza, la “loro” scelta di libertà da ogni canone e regola imposta – tanto dalle convenzioni accademiche canoniche, quanto dall’iconoclastia dei nuovi codici dissacratori e disgreganti – non potranno che non collocarli in una posizione neotradizionalista e conservatrice, come naufraghi e sopravvissuti ad un sogno troppo brevemente consumato, che ci si ostina a tenere in vita e a difendere, come le vestali col sacro fuoco, dalle insidie transeunti e dagli eventi minacciosi.

Per questa ultima generazione di nordici in Italia la Roma nobile e spirituale della tradizione idealistica diviene infatti sempre più il luogo in cui si condensano le aspirazioni più alte dell’immaginario; la si contorna di un alone magico, onirico e malinconico, soffrendo di conseguenza ad ogni sua profanazione, distruzione e trasformazione. Non sorprende quindi di percepire nella loro arte un’evidente sintonia ed osmosi con i pittori italiani, principalmente di area o di formazione romana, che negli stessi anni si facevano portavoci di quelle medesime aspirazioni e premesse: Sartorio, Cellini, Coleman, Bargellini, De Carolis, solo per fare alcuni nomi.

Il periodo viennese

Ripercorrendo brevemente i primi sviluppi dell’arte di Hirschl a Vienna, occorre ricordare la sua formazione presso l’Accademia di Belle Arti, dove fu allievo, tra il 1878 ed il 1880 circa, dei pittori August Eisenmenger e Leopold Karl Müller: il primo, già allievo di Karl Rahl (il maggiore pittore di soggetti storici dell’Ottocento austriaco), era legato al genere storico-allegorico e fu egli stesso autore di grandi cicli decorativi in edifici pubblici, mentre il secondo, tra i due forse il più stimolante per il giovane Hirschl, era un eccellente esecutore di dipinti di genere orientalista (veniva chiamato “Müller dell’Egitto”).

Il primo quadro realizzato da Hirschl al termine degli studi all’Accademia fu L’addio. Episodio del passaggio delle Alpi di Annibale (1880), insignito di un premio speciale, istituito dallo stesso Imperatore, come miglior lavoro del corso speciale di pittura di soggetto storico. Si tratta di un quadro di abilità e fattura già notevolissime, che sembra risentire di certi filoni di pittura francese (nel caso particolare Paul Delaroche), che il giovane artista dimostrava di seguire con molta attenzione negli anni viennesi, periodo in cui la sua arte era particolarmente influenzata dallo storicismo e dall’orientalismo.

Con L’entrata dei Goti a Roma Hirschl vinse nel 1882 il Rompreis, una borsa di studio per viaggiare e soggiornare all’estero. Andò quindi in Egitto e poi in Italia, nella cui capitale si fermò fino al 1884, dipingendovi La peste a Roma: un quadro dal taglio spettacolare, impostato secondo un asse trasversale di profondità, nel quale un corteo di vergini cristiane si snoda sommesso e pietoso tra le vestigia monumentali e decadute del Foro imperiale (il soggetto si ispira alla Historia Longobardorum di Paolo Diacono e descrive il corteo propiziatorio contro la peste che esplose a Roma nel 590 d. C., appena prima l’incoronazione di Papa Gregorio Magno). Anche qui non è difficile immaginare un contatto con la pittura francese del filone antichizzante alla Gérôme, che riscopriva nell’enorme “magazzino” della storia, greco-romana in particolare, motivi da ricostruire con lucida oggettività archeologica e antiquaria, rivestendoli però dello spirito, delle idee e delle inquietudini del proprio tempo, di metafore civili e morali intrecciate al languore romantico ed estetizzante per l’effimera transitorietà umana.

I dipinti di Gérôme, esposti nei Salons parigini, venivano diffusi in Europa dalle photogravures della casa Goupil ed anche in Italia alla fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta si assiste ad un diffondersi di un gusto affine, con un proliferare di temi pompeiani e romani che ebbero nelle tele di Giovanni Muzzioli o di Cesare Maccari i più noti esempi: una linea quindi ormai estesa a livello internazionale, che lo stesso Hirschl non avrà mancato di osservare anche nelle declinazioni italiane, durante la sua prima permanenza a Roma. Erano del resto anche gli anni del successo clamoroso in Inghilterra di Alma Tadema con i suoi quadri di soggetto “antico”, dei romanzi di Walter Pater, della nascita di un estetismo antiquario prontamente recepito di lì a poco dalla Roma dannunziana, “bizantina”, e filo-preraffaellita.

Tornato nella Vienna artistica dominata dalla figura di Makart, Hirschl fu sicuramente contagiato da quella concezione estetica sfarzosa e barocca, senza tuttavia lasciarsene completamente dominare e senza rinunciare a tenere d’occhio le novità e le tendenze internazionali. Nel corso del ventennio viennese vediamo infatti come la sua arte di volta in volta richiami, oltre alla pittura francese dei Salons (Gérôme, Bouguereau, Cabanel, Lehmann), quella preraffaellita e neogreca di Leighton e di Alma Tadema, e, in particolare dopo la svolta simbolista che prende avvio nel corso degli anni Novanta, quella di Böcklin.

Nel 1893 allestì insieme al paesaggista Ludwig Hans Fischer dei tableaux vivants nella dimora della Baronessa Oppenheim, il Palazzo Todesco di fronte all’Opera, nel quale aveva già eseguito quattro tondi decorativi ispirati alle stagioni. I dieci tableaux, che sono rimasti documentati da fotografie, intendevano rappresentare, con attori viventi accuratamente disposti in posa, idilli amorosi e conversazioni galanti in differenti periodi storici, mimando con esatta fedeltà quadri famosi di Makart, Alma Tadema, Max, Constant, Kämmerer, Pater e von Schwind.

Hugo von Hofmannsthal, che vi partecipò di persona e ne scrisse il prologo e l’epilogo, commentava tra garbo e ironia con dei versi suggestivi questi divertimenti di un’aristocrazia che sublimava la propria vita mondana, beandosi di quel tipo di favole e galanterie, appassite quanto delicate, “amabili e vetuste, sommesse e malinconiche” come un Lied di Schubert, nelle quali “tutto è grazioso e familiare e insieme estraneo”. Un gusto che amava nutrirsi di raffinati minestroni eclettici, di variazioni e citazioni creative dell’ormai immenso repertorio trasmesso dalla tradizione; un gioco di rimandi artificiosi e ambigui di un’arte che imita la realtà e di una realtà che imita l’arte, contemporaneo e certamente imparentato, anche se più cortigiano e alla fine più baraccone, con i tableaux vivants fotografati a Roma negli stessi anni dall’amico di D’Annunzio Conte Primoli (Hofmannsthal stesso ebbe rapporti in Italia con l’ambiente dannunziano).

Tuttavia la vena più profonda di Hirschl non era tanto quella degli idilli – anche se nei tableaux c’erano omaggi ad artisti che erano stati per lui importanti punti di riferimento – quanto piuttosto quella che rivelava la sua attrazione per il drammatico e l’apocalittico, ossia la sua componente più romantica e “Sturm und Drang”.

Con Assuero alla fine del mondo (1888) fa la prima, decisiva apparizione nella sua opera l’elemento tragico e fantastico, dilatando in senso simbolico la dimensione delle precedenti ricostruzioni storicistiche. E’ un simbolismo figurale e narrativo, che gioca per aggiunta anziché per sottrazione. Su un paesaggio ghiacciato, che è quasi la citazione letterale de Il naufragio della “Speranza” di Friedrich, lo spazio deserto è invaso dai personaggi di una fiaba sinistra e spettrale: la figura ricurva del canuto Assuero (Ahasver, ovvero l’ebreo errante) che vaga tra i vapori gelati in compagnia della Morte come un vecchio stregone angosciato e senza pace, l’Angelo (della speranza o del giudizio) che appare sullo sfondo, il cadavere seminudo di una donna (l’umanità morta) che giace riverso tra i ghiacci mentre i corvi planano a terra per cibarsene.
Il tema cruento dell’uccello che strazia le carni umane torna in Prometeo e le Ondine, un dipinto del 1892 nel quale si ritrova il contrasto tra i corpi nudi ed eccitanti delle fanciulle che emergono dai flutti schiumosi dal mare e quello del titano dilaniato dal rapace: una metafora dell’amore, anche sensuale, come lenitivo al dolore di vivere o, al contrario, esso stesso fonte di quella sofferenza?

Il quadro Fantasia marina (1892), nel quale un poeta in vesti moderne è sdraiato su uno scoglio, consolato e ispirato (oppure verrebbe da dire “tentato”) da ondine mormoranti, parrebbe far propendere per la prima ipotesi, anche se Hirschl ama giocare con l’ambivalenza delle componenti contraddittorie: tormento-estasi, attraente-ripugnante, rassicurante-minaccioso, carezzevole-pungente. Contraddizioni insinuate anche ne L’inverno, uno dei tondi di genere decorativo di Palazzo Todesco (c. 1893-95), dove i corpicini teneri e ignudi di due angioletti giacciono addormentati in mezzo al biancore della neve, mentre due corvi neri e poco simpatici si aggirano intorno in cerca di becchime…

Nella Santa Cecilia, un altro dei quadri importanti che l’artista dipinse in quegli anni (replicandolo più volte e variandone il motivo), il soggetto è da considerarsi solo in parte religioso e la significazione è a metà strada tra il pagano e il cristiano. La santa giace distesa sulla riva del mare tra i fiori e gli scogli, vegliata da figure femminili angeliche e musicanti e la sua estasi, come quelle della Santa Teresa e della Beata Ludovica Albertoni di Bernini, suggerisce un’agonia che è puro struggimento di sensi.

Il tema del mare irrompe definitivamente nelle opere che Hirschl dipinge negli anni Novanta: dalla Venere distesa tra i flutti (1893), che è una revisione aggiornata di quella celeberrima di Cabanel (qui molto più fragorosa e scomposta), ai vari trionfi marini con tritoni e nereidi alla maniera di Böcklin, del quale ama parafrasare anche il tema delle ville e delle rovine sul mare nel dipinto Cimitero marino (1892), rimarcando in quel camposanto spazzato dal vento e dalle onde l’idea filosofica pessimista della natura che sovrasta e logora con la sua forza le memorie dell’uomo, nell’eterno ritmico rinnovarsi degli anni e delle stagioni. Altre volte, come in Frangenti (c. 1897), il mare diviene l’unico assoluto protagonista, ritratto nel suo dibattersi impetuoso sugli scogli, come simbolo di un mondo naturale che parla da solo dei propri eventi giganteschi: mito di un’epoca che soffre delle rapide trasformazioni industriali della civiltà moderna e celebra nel primordiale e nel primitivo valori di fuga eterni, immutabili e nostalgici.

Hirschl aderisce pienamente nel corso degli anni Novanta al clima che si stava instaurando tra molti artisti di cultura tedesca, in nome di un vero e proprio culto per l’arte di Böcklin: un’ammirazione estesa che coinvolgeva artisti di sensibilità affini e nello stesso tempo diverse, come Klinger, Thoma, Greiner, Keller e von Stuck, fino agli illustratori della “Jugend” monacense, che ne riprendevano i “motivi”, attingendo all’infinito ad un genere che riusciva a contemperare sia i turbamenti misteriosi e solenni che le giocose euforie dionisiache. Un gusto che si diffondeva a perdita d’occhio, dalle moderne stilizzazioni decorative della grafica jugendstil alle contaminazioni eclettiche della pittura accademica che cercava essa stessa in quel crogiolo di idee tematiche nuove e stimolanti attraverso le quali rinnovarsi e rinvigorirsi. Ricordiamo l’esempio di Hermann Prell, artista di Lipsia dedito alle grandi decorazioni ufficiali (per il Museo di Breslau, l’Albertinum di Dresda ecc.), che tra il 1896 ed il 1899 dipinse a Palazzo Caffarelli a Roma (sede dell’Ambasciata e di esposizioni artistiche tedesche) una grande allegoria dell’Inverno con divinità marine in un mare tempestoso, una specie di manifesto germanico del simbolismo mitologico a tinte forti, in cui si mescolano saghe wagneriane e barocchismi cortoneschi: una linea dalla quale lo stesso Hirschl non si discosta alla fine di molto, anche se la sua condotta rimane maggiormente raffinata ed elegante.

Anche lui, nonostante gli spunti innovatori sia dal punto di vista tematico che stilistico, rimase esitante ed ancorato ad una impostazione sostanzialmente accademica, rivelata pure dal quadro più importante che eseguì in quegli anni, Le anime dell’Acheronte, insignito nel 1898 di medaglia d’oro all’esposizione per il Giubileo dell’Imperatore. L’attenzione analitica per il dettaglio, sia esso un ramoscello contorto oppure un’anatomia, un panneggio o un’espressione studiati dal vero sul modello vivente o fotografato, infondono al dipinto finito quell’impressione ibrida di vita vera e insieme sognata in cui l’eccesso di realismo finisce per stridere col simbolo. E’ comunque indubbio che l’intento del quadro sia quello di collegarsi alle atmosfere del Simbolismo contemporaneo, in particolare a quelle visioni di vortici, di grappoli e fiumane di umana varietà che si trovano in opere coeve di un Sartorio (la Diana d’Efeso e gli schiavi), di un Malczewski o di un Fréderic.

Il periodo in cui Hirschl realizzò Le anime dell’Acheronte coincise con l’uscita dalla Künstlerhaus da parte dei “Giovani” per fondare, guidati da Klimt, la nuova Associazione degli artisti figurativi viennesi che prenderà poco dopo il nome di “Secessione” ed è sintomatico che egli non li seguisse; questo non tanto per opportunismo e scopi utilitaristici, quanto probabilmente per la sua convinta, pur inquieta, appartenenza alla scuola accademica, nell’idea che il famigerato “storicismo” potesse modernizzarsi – ad esempio attraverso certe svolte allegorico-mitologiche di tipo più individualista e simbolico – senza bisogno di scossoni e reazioni “secessioniste”. Gli eventi del 1897/98, che avrebbero messo fortemente in discussione la sua scelta conformista di rimanere legato alla Künstlerhaus, coincisero, come abbiamo sopra ricordato, anche con avvenimenti inerenti alla sfera privata che finirono per travolgere la sua reputazione negli ambienti ufficiali. Un trend avverso si ripercosse da quel momento nella sua arte: il suo progetto per il Trionfo di Maria Teresa fu ricusato e non incluso tra i premiati, mentre Le anime dell’Acheronte veniva sempre più sottoposto a critiche negative, provenienti probabilmente sia dal versante dei conservatori che da quello dei modernisti.

Gli anni a Roma

Nel 1898 Hirschl abbandonò dunque per sempre Vienna per stabilirsi in modo definitivo a Roma, una città che al tempo veniva descritta come uno dei più importanti e interessanti foyers artistici del mondo, meta ambita di pittori e scultori stranieri provenienti da ogni paese e accolti con favore da una capitale che amava fregiarsi di questo primato cosmopolita. Molti prendevano studio a Villa Strohl-Fern o nella zona di Via Margutta e partecipavano con interesse alla vita artistica e mondana della città. Hirschl, che adesso aveva adottato il cognome Hirémy, fu probabilmente introdotto in società da Othmar Brioschi, un pittore venuto a Roma da Vienna nel 1883 e ormai ben inserito nei circoli artistici.

Il nostro strinse così rapporti con artisti romani gravitanti intorno alle mostre degli Amatori e Cultori, come Sartorio, Innocenti, Carlandi, Balla, Joris e Parisani, oltre a stranieri residenti come Max Roeder, di cui divenne amico. Alla mostra annuale degli Amatori e Cultori del 1904 gli fu assegnato lo spazio per esporre più di settanta opere, praticamente una personale, dove per la prima volta i suoi lavori erano sottoposti ufficialmente a giudizio davanti al pubblico italiano. Stando a quanto ricordava Severini in merito ad Otto Greiner, questo tipo di tedeschi-romani, sebbene la loro arte suscitasse opinioni contrastanti, attirava l’attenzione della bohème artistica romana di inizio secolo, che vedeva nelle loro proposte spunti interessanti per arricchire il nuovo concetto idealista di pittura “stato d’animo” e nel loro realismo simbolico suggerimenti per abbandonare il verismo tout court, specialmente per quanto riguardava l’estetica del paesaggio.

Hirémy fu in contatto con i XXV della Campagna Romana e nel rapporto di reciproca osmosi con gli artisti laziali egli stesso approfondì in senso meno programmatico e più libero lo studio del vero, quantomeno ricercando valori e scorci meno “titanici” e più intimisti, specialmente nella sincerità del paesaggio rurale.

L’utilizzo del pastello e dei gessetti colorati, una pratica privilegiata che aveva adottato a Vienna per gli studi preparatori, ricorre anche negli anni romani e resta, al di là di tutto, il lato più affascinante dell’arte di Hirémy-Hirschl, inducendoci a paralleli stilistici e qualitativi con i disegni analoghi di due grandi maestri come Greiner e Sartorio. Comparato ai due ci pare più vicino al secondo: gli splendidi studi di nudo dell’artista viennese perdono mano a mano la loro precisione accademica e tendono, soprattutto negli anni romani, verso una maggiore stilizzazione ed anche indipendenza dalla pura finalità preparatoria. Sono meno analitici e oggettivi di quelli di Greiner, mentre la loro fisicità si fa più morbida e suadente, i loro movimenti nello spazio assente del foglio meno statici rispetto a quelli dell’artista di Lipsia; la loro modellatura e andatura vagamente liberty, serpentinata, adunca e anguiforme, ricorda maggiormente lo stile di Sartorio, come anche certe fisionomie femminili standard che tradiscono passate ascendenze preraffaellite. Hirémy Hirschl condivide con Sartorio anche quella particolare fascinazione che entrambi subirono dalle fasi transitorie della storia, in particolare dal passaggio del mondo pagano a quello cristiano. Nello stesso periodo in cui il primo realizzava l’ultima sua opera importante, il polittico del Sic transit… (1912), il secondo poneva mano ad un lavoro di scrittura e illustrazione che lo impegnò per svariati anni: il poemetto Sibilla (integralmente pubblicato solo nel 1922), nel quale si favoleggia, sulla scorta del Tannhaüser wagneriano e di antiche leggende italiche, di una maga incantatrice che tiene in vita nelle cave sotterranee di San Pietro tutto un mondo di affascinanti e inquiete seduzioni pagane. L’epilogo non sarà tanto il trionfo del Cristianesimo, quanto piuttosto una suggestiva trasmutazione sincretistica nella quale si intonano a Sibilla le litanie della Vergine.

Nel Sic transit… di Hirémy-Hirschl, come già in altre opere giovanili ispirate a quella fase storica, si fantastica sul tramonto della Roma antica e del sorgere di quella cristiana, ma anche lì il motivo dominante, pauroso e insieme avvincente, sta tutto nelle nuvole di fantasmi che si aggirano tra le rovine, gridando vendetta e seminando distruzioni e pestilenze.

Certi disegni di figure femminili dall’aria allucinata e un po’ folle, contemporanei e funzionali all’elaborazione del Sic transit… paiono ricordare lo stesso Klimt, già antico rivale negli anni giovanili di Vienna; sul quale Hirémy-Hirschl era portato forse a rimeditare anche in virtù del tardivo entusiasmo klimtiano che si verificava in Italia in quegli anni, sulla scia della presentazione, per la prima volta nel nostro paese, dell’artista austriaco alla Biennale di Venezia (1910) e all’Esposizione Internazionale di Roma per il cinquantenario della capitale (1911).

Diviso tra una produzione grafica più libera e sperimentale e le ambizioni di una pittura ancora di sensazionale significazione idealistica e simbolica, Hirémy-Hirschl fu membro del Deutscher Künstlerverein a Roma, di cui rivestì anche il ruolo di presidente; mentre nel 1913 veniva accolto, insieme a Max Roeder, nell’Accademia di San Luca.

Lasciata l’Italia durante la Prima Guerra Mondiale, si arruolò volontario nell’esercito austriaco e militò come pittore di guerra a Trieste, a Pola e in altre basi militari della Marina. Al termine del conflitto tornò a Roma, dove praticò anche l’incisione (puntasecca, acquaforte, vernice molle e monotipo) partecipando al GRIA (Gruppo Romano Incisori Artisti) al quale aderì su invito del Presidente del gruppo, Federico Hermanin (Soprintendente ai Musei e alle Gallerie di Roma) e sull’esempio di Roeder e di Lipinsky.

Isolatosi progressivamente dall’ambiente artistico, moriva a Roma nel 1933, dopo che il diabete ne aveva minato irreparabilmente la salute. La vedova allestì due esposizioni postume nel 1934 e nel 1938, dopo di che l’oblio scese definitivamente sulle sue opere. A partire dal 1981 un’interessante serie ravvicinata di mostre in Italia e all’estero, basate sul ritrovamento dell’archivio, ha fatto rinascere una sensibile attenzione su di lui (alla quale hanno fatto seguito anche acquisizioni pubbliche), mettendone in luce soprattutto la grande capacità di disegnatore.

Emanuele Bardazzi, novembre 2001

Bibliografia essenziale

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Il testo è pubblicato in Hirémy Hirschl, Galleria dell'Incisione, catalogo della mostra, Brescia 2001

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