Il testo è pubblicato in Ana Kapor. Aspettando il vento, catalogo della mostra, Galleria dell’Incisione, Brescia 2007
20 Marzo 2007
di Chiara Gatti
Dopo ore di cammino, in mezzo alla brughiera, fra montagne a picco e specchi d’acqua lisci come cristalli, il viaggiatore rimane stregato da una visione che lo coglie all’improvviso. Di fronte a lui, oltre una cortina di nebbia, affiora una costruzione dai profili perfetti. Silenziosa come una tomba, resta lì, immobile, davanti ai suoi occhi affascinati e impauriti allo stesso tempo. Sono io – si chiede l’uomo strizzando lo sguardo nella bruma diretto a quel fantasma di pietra – a guardare lei; oppure è lei che, sfrontatamente, sta fissando me? Custode della pianura, la costruzione lo tiene in pugno. E il viaggiatore, braccato, le cammina incontro come verso un miraggio.
C’è qualcosa di pericoloso nelle immagini da Ana Kapor. Qualcosa che non ti aspetteresti. Che all’inizio ti irretisce, come un canto di sirena. Rimani lì ad ascoltarlo imbambolato. Poi, d’un tratto, ti viene il dubbio che la calma celi un segreto; che la quiete non durerà a lungo e presto si scatenerà l’inferno. Un po’ come nella casa di marzapane, di Hansel e Gretel, che nascondeva la trappola sotto strati di crema pasticcera. O come Fillide, la città invisibile di Calvino, che concedeva la sua bellezza solo ai viandanti in transito lontano, giù nella vallata. Chi decideva, al contrario, di varcare le sue porte, era destinato a vederla sbiadire lentamente… e a vedere se stesso svanire con lei.
Fermi nell’attesa, di fronte alle architetture di Ana Kapor si ha - insomma - la sensazione che qualche cosa di misterioso stia per accadere. Basterebbe, difatti, un colpo di vento per mettere a soqquadro tutto: per smuovere la nebbia, spettinare l’acqua, scuotere la bandiera issata in cima a una torre, sbattere con forza le persiane contro i muri della facciata, levigati come saponette. Basterebbe un capriccio del tempo a rompere il silenzio, bucare le nuvole e lasciare passare una luce calda, capace di fare miracoli. E trasformare il miraggio in una creatura animata.
Ma le luci calde e miracolose sono quelle che Ana conosce meglio. E sa come ammansirle. Lei, che per metà è serba e metà croata e ha stampato nella testa (e negli occhi!) il chiarore della terra dalmata, i tetti rossi e le pietre bianche, luminescenti dei palazzi di Dubrovnik, tracce dello splendore dell’impero bizantino. Domatrice degli eventi atmosferici, Ana placa il vento e la luce pensando a come Giorgione aveva fatto con la tempesta. La lezione del luminismo veneto rappresenta, in questo senso, il suo antidoto al mutare improvviso del clima. Il presagio e la paura restano nell’aria. Ma il pericolo è scongiurato.
Merito (e qui entra in campo l’abilità del racconto) di quel linguaggio “esatto” – per tornare a Calvino – di cui Ana si serve nella “resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. Un linguaggio zuppo di Rinascimento, tradito dalla luce, appunto, e dalle geometrie magiche; ma anche dalle scelte di metodo, delle composizioni a polittico o della tecnica a olio su tavola. Un linguaggio che le permette di fermare il tempo, di dare alla storia quell’effetto di sospensione ingannevole, dove lo scambio di sguardi, fra il viaggiatore (ovvero, lo spettatore) e la costruzione, si rivela un gioco mentale, un dialogo astratto. Anche il senso di pericolo è tutto cerebrale. È una partita a scacchi dove la torre è piantata lì, davanti ai tuoi occhi, e potrebbe mattare al primo soffio di vento.
Chiara Gatti, marzo 2007
Il testo è pubblicato in Ana Kapor. Aspettando il vento, catalogo della mostra, Galleria dell’Incisione, Brescia 2007