30 Agosto 2017
di AnnaMaria Chiara Donini
Paesaggi e figure del reale è titolo semplice per una circostanza che ha la portata dell’evento. Già l’uso del complemento di specificazione, accanto ai due plurali, richiama l’attenzione su un concetto, quello di realtà, così complesso da prestarsi facilmente al gioco di paradossi e fraintendimenti, in modo particolare se si evoca un termine a essa correlabile come: realismo. La questione attiene allo spettro semantico della sua applicazione, non esclusiva del linguaggio della critica d’arte, ma tradizionalmente esteso ad altri ambiti. Più in generale, l’interesse sempre più diffuso nei confronti dell’oggettività travalica l’ambito artistico, estendendosi alla sfera filosofica in senso lato, segno di un’offensiva “neorealista” contrapposta a una lunga stagione che, per semplicità, definiremo antirealista. Coincidenza storica, o sintonia culturale, la questione rivendica un’urgenza che impegna, anche se nei limiti di queste note.
Poco più di un secolo e mezzo fa, Gustav Courbet – escluso dall’Esposizione Universale – inaugurava a Parigi la prima mostra del Realismo. Ai molti oppositori, contrariati dalla presenza di soggetti umili inseriti in situazioni e formati inadeguati alla prassi dell’Accademia, controbatteva con una semplice frase: “Io dipingo solo ciò che vedo”. Così dicendo sottolineava l’importanza di un approccio oggettivo, imparziale, nei confronti della contemporaneità, distanziandosi nettamente dalle consuetudini espressive del suo tempo; queste ultime – a suo giudizio – avevano svilito l’arte introducendo artifici (quali l’idealismo, l’oleografia, la narrazione storica, la mitologia), che l’avevano allontanata dalla vita quotidiana. Anche nei successivi interventi, Courbet continuò ad accentare la rappresentazione fedele del dato reale quale esclusivo centro d’interesse della sua ricerca artistica: un cardine dove si sarebbero poi articolati eventi e movimenti tanto importanti da modificare il corso della storia dell’estetica e della percezione dell’immagine. A essere sinceri, però, la “questione del reale” non faceva la sua prima comparsa con la mostra courbetiana, così come non era nuovo il discorso legato al problema della mimesis[1] o della rappresentazione fedele e oggettiva della realtà. Nei secoli precedenti, infatti, altri artisti, mossi da intenzioni programmatiche diverse (in molti casi privi delle stesse, perché legati dai condizionamenti ideologici del loro tempo) avevano cercato di evadere dai sistemi esistenti, e di concentrarsi sul quotidiano, tant’è che Champfleury – all’inizio del terzo quarto dell’Ottocento – aveva affermato che “il Realismo non solo [era] vecchio come il mondo, ma che i realisti [erano] sempre esistiti”. La frase dava così abito a una sorta di “costante artistica metastorica”[2] che, nel volgere del suo sviluppo, aveva e avrebbe espresso personaggi come Caravaggio, Velázquez o Vermeer, John Constable o Thomas Jones; nei decenni successivi Corot, Degas o Cézanne[3], e, anni dopo, gli esponenti di Valori Plastici o quelli della Nuova Oggettività, gli artisti liberi da movimenti come Casorati o Morandi, sino ad arrivare – con ulteriori e ingiuste elisioni – ai nostri giorni con il gruppo del Realismo madrileno guidato da Antonio López García. A questa tradizione secolare e ininterrotta, dunque a un ambito coltissimo, appartengono Jorge Abbád, Carlos Madrigal, Alessandro Taiana, Riccardo Taiana e Pedro Quesada, i quali hanno stabilito di destinare l’intera loro ricerca alla messa in forma del dato fenomenico, alla rappresentazione della realtà nella sua irriducibile complessità.
In apertura scrivevamo che il termine realtà non è semplice, né il suo uso sempre innocente. È quindi necessario fare qualche puntualizzazione. È noto come perno imprescindibile del realismo sia il riconoscimento di un’oggettività indipendente dalla percezione, dal desiderio, dalle categorie concettuali e organizzative del soggetto spettatore. Il reale, sia esso composto da oggetti sociali culturali o naturali, costituisce un fondamento resistente, irriducibile alla formalizzazione dell’uomo; si presenta come un nucleo puro e inemendabile. Ora, rispetto a questo nucleo primitivo, le opere qui esposte sono un esempio del tentativo proprio del realismo di sorprenderne la struttura profonda della sua presenza, dello sforzo di rappresentare una costante d’invarianza, strappandola al fluire ineluttabile della cosa. Se tale prova è orientata a cogliere l’essenza, la sua iscrizione al registro del realismo non giustifica solo la validità di una definizione, ma anche - come vedremo - la moralità di tale operazione.
Forse, però, non tutto è così lineare. Approssimiamo la questione in modo più problematico: cosa può trattenerci da una sua scelta convinta? La pittura che guarda al reale non può, come ogni altra modalità rappresentativa, prescindere dalla specificità del suo linguaggio. Peculiarità per cui, se l’oggetto offre l’occasione, e si propone come il referente della visione, è tuttavia nella forma e nella regola del codice pittorico che si concretizza. Una cosa è l’immediatezza del percepito, un’altra è la mediazione sintattica che ne determina il senso e l’identità. Da questo punto di vista ciò che viene raffigurato non può essere il profilo prospettico, sempre finito e unilaterale, della percezione, ma il senso unificante che lo associa e integra ad altri. Il linguaggio pittorico mi restituisce il veduto nei modi che gli sono propri; ma così facendo lo supera e tradisce ciò che appare nella singolarità delle sue forme. Sarebbe un’ingenuità pensare a una trasposizione fedele; un’incauta e inattuale credenza attribuire al segno la capacità di restituire una neutra riflessione. La pittura, come ogni linguaggio, è un’intenzionalità significante che dice altro rispetto a ciò che vede, realizza un’architettura di senso più ricca rispetto al semplice rimando imitativo dell’oggetto designato. Cercando la costanza di quel centro d’apparizione, che prescinde dal fluire della cosa e che ne identifica la realtà, il linguaggio pittorico compie uno scarto e trascende tutte le apparizioni sensibili, componendole in unità. Sono pertanto il lessico e la sintassi pittorici che determinano l’apparenza, facendola cosa, dandole quell’oggettività che di per sé non possiede. Così dicendo, tuttavia, cade il presupposto che giustificava la scelta della nostra definizione. La volontà realista si scontra con l’originarietà di un linguaggio, con una struttura significante, cui spetta il primato nel processo di costituzione dell’oggettività della realtà osservata. Da qui la paradossalità del realismo poiché riconosce come reale ciò che si sottrae alla realtà, perché assegna un credito di oggettività a ciò che trascende l’oggetto. Tale processo è osservabile in molta dell’arte che si autoproclama, o che è erroneamente definita, realista ma che non è null’altro che l’esatta riproposizione di un’immagine fotografica. Ciò significa che, anziché avere a modello un oggetto reale, immerso in una sua atmosfera concreta e accompagnato da ombre diversamente corpose e da uno spettro cromatico ampissimo, l’artista ha di fronte una sua riproduzione piatta, uniforme e bidimensionale, impoverita nei toni, nei volumi, nell’ampiezza prospettica. È la vittoria del linguaggio sulla realtà, l’affermazione di un’autoreferenzialità che la svuota in un estenuato formalismo. Il foto-realista riproduce non la prima realtà, ma una sua controfigura e, con destrezza – a volte magistrale ma sterile – lavora su un dato manipolato dalla mediazione fotografica. Il risultato – sempre accompagnato da una sovraesposizione effettistica, necessaria a mantenere teso lo stupore del pubblico – sarà una copia della copia, quindi doppiamente falsificata perché prodotta dal riflesso illusorio del linguaggio fotografico.
La pratica descritta (preda appetibile per larga parte del mercato, incline ad apprezzare l’arte come oggetto decorativo e ancor più come generatore di meraviglie e baloccamenti), non appartiene ai cinque artisti presenti in mostra, i quali lavorano d’aprés nature. Lavorare in questo modo significa che oggetti, figure, ambienti familiari o ostili, paesaggi naturali o corrotti, devono proporsi con il loro peso, la loro consistenza, e con il corredo di problematicità che loro pertiene. Complessità che è attribuibile a una serie di accidenti così mutevoli da riuscire anche a mettere in crisi tutto il lavoro sino a quel momento svolto[4]. Anche per questa ragione il “realista puro” avverte un dovere che lo sprona a sospendere l’attività - suo malgrado - e a non terminarla, proprio perché le condizioni iniziali hanno subito metamorfosi. Il fare artistico non si presenta come una prassi neutrale e indifferente, ma rivendica una vocazione e una tensione morale. È lecito, e ancor più doveroso, chiedersi il fondamento di una tale vocazione. Secondo noi, il valore etico messo in atto dal realismo non guarda - se non forse indirettamente o in seconda battuta - al bene dell’uomo, proponendo un’arte “edificante”, ricorrendo a moniti o suggerimenti. Il suo movente e il suo fine non possono che risiedere nel reale che lo interpella e che esige responsabilità e rispetto. Una volta posto il primato del reale, possiamo descrivere l’articolata fenomenologia della moralità che questa modalità artistica persegue. Dapprima dobbiamo constatare una latente eticità nel gesto che, di fronte alla resistenza impenetrabile del reale (un nucleo massivo e opaco) riconosce la propria impotenza e si ferma rinunciando all’impresa. Questa non è che la prima modalità; la cosa, infatti, ama nascondersi anche in altro modo: nel suo fluire, nella variazione atmosferica, nella metamorfosi prodotta dalle nuove condizioni della luce. In tal caso l’eticità del gesto non è nella sospensione, ma nella presa d’atto del proprio limite che impone l’interruzione dell’opera e l’accettazione del possibile sin lì realizzato. In entrambi i casi, ciò che affiora è una moralità negativa proprio perché scaturita dalla constatazione del finito e dall’invalicabilità del limite. In secondo luogo dobbiamo evidenziare un’eticità più esplicita che, positivamente, coinvolge l’esecutore in una disposizione fiduciale verso il concreto che lo sollecita. L’oggettività invita l’artista a una confidenza che non nasconde una volontà seduttiva, che tiene sempre in serbo l’intenzione di un tradimento, ma che esplicita un invito leale e sincero. Il reale esorta a credere nella propria verità, sollecita ad aver fede nell’oggettività che promette. La manifestazione della cosa è l’annuncio di un impegno che l’artista deve raccogliere con fiducia, è l’urgenza di un compito che gli è affidato, pur nella consapevolezza della fallibilità del proprio lavoro. Niente va sprecato, ogni apparizione ha una sua dignità, ha un valore in sé che non può essere trascurato o svalutato da uno sguardo autenticamente interrogato. La cosa non potrebbe mostrarsi senza un soggetto che la attende, un esistente che - come la realtà che esige un atto di fiducia - nel suo agire deve fare i conti col tempo. E qui il realismo incontra la grande questione della temporalità a cui e da cui non può prescindere. È, detto in altri termini, il problema della permanenza della cosa rispetto alla sua presenza, rispetto allo stato d’invarianza che ne definisce il darsi ontologico. Si tratterà, pertanto, di vedere come il tempo possa risiedere nella realtà rappresentata del realismo.
Procediamo per via negativa dicendo che cosa non lo riguardi. Non gli pertiene il tempo storico depositato nelle urgenze sociali di un’epoca, nelle rughe di un volto, nella rovina che affiora dal suolo della memoria. Esempi di una temporalità che l’arte piega alle funzioni che via via ha assunto (denuncia, commemorazione, narrazione, ricordo, ecc.). Ma se il realismo non si occupa del tempo storico, non si occupa neppure della simultaneità che fissa nel punctum temporis dell’immagine l’idea immutabile della cosa. Come pure del tempo prospettico, a cui ha guardato l’arte nella sua stagione avanguardistica, dove il tempo descritto è quello emerso indirettamente dalla scomposizione intellettuale del processo percettivo e della sua restituzione rappresentativa. Il realismo guarda al tempo con altri occhi, altre preoccupazioni; esso s’impone come condizione di manifestazione di quel nucleo invariante della realtà. Compito che assolve da entrambi i lati: ora come requisito oggettivo rinvenibile nel variare delle situazioni metereologiche, climatiche, ambientali; ora come frangente soggettivo legato al fare artistico, al gesto esecutivo. Che si tratti di un tempo atmosferico scandito dalla dinamica imprevedibile della luce, e al suo paradosso inaggirabile secondo il quale per dare a vedere deve negarsi (secondo la famosa immagine platonica del sole “che, in quanto dà a veder, non può essere visto”); che si tratti di un tempo pratico, cadenzato dal ritmo frenetico e impaziente o lento e riflessivo, dell’esecuzione. In entrambi i casi, il tempo non interviene nella rappresentazione del reale come fattore strutturale, ma come elemento accidentale. Rispetto alla ricerca di un’invarianza ontologica a cui spera di poter pervenire, il realismo si scontra col tempo come variabile incidentale, come incostanza che minaccia in ogni istante la riuscita dell’opera. È rispetto a questo elemento tirannico e deformante, accidentale e irreale, che vanno intese tutte quelle strategie del fare artistico che perseguono la permanenza: ora realizzando il lavoro in una sessione di brevissima durata; ora ritornando sul modello ogni volta che si offrano le condizioni di luminosità più simili alla prima seduta, cercando quell’identità temporale che assegna all’ora una trama che s’infittisce a ogni ripresa, che assimila i tempi delle successive sedute in un tempo infinito[5]; ora scegliendo l’esecuzione con luce artificiale. Detto ciò, si dovrà anche rilevare che solo nel primo e nell’ultimo caso l’appropriazione del dato fenomenico sarà ortodossa perché, per quanto un momento, in condizioni equivalenti, possa apparire poco dissimile dal precedente o dal successivo, mai si rivelerà nella sua prima forma.
Seguendo le indicazioni di Pierre-Henri de Valenciennes[6], pittore e teorico dell’en plein air, Riccardo Taiana ha realizzato la maggior parte dei dipinti del ciclo TEEM[7] ciascuno in un’unica seduta. Nel corso di poco più di un anno è entrato ripetutamente nei cantieri blindati di Truccazzano con l’intenzione di dipingere ciò che, nella nostra inconsapevolezza, ci cresce attorno stravolgendo l’identità del territorio e l’immagine del paesaggio[8]. Servendosi della complessa arte del disegno[9] (eredità della lezione devalliana e dell’analisi dell’opera di López García) e delle norme di bilanciamento tonale (portato dell’attento studio anche della pittura di Corot), Riccardo Taiana costruisce ritratti di anti-paesaggi o di paesaggi distopici, attualissimi sia per le soluzioni tecniche adottate sia per i temi affrontati[10]. I suoi soggetti non sono per nulla ammiccanti (anzi potrebbero essere persino ostili) e la sua pittura, semplice-sottile-sensibile[11], è inflessibile e coercitiva - ci sarà chi la troverà ostica - perché obbliga lo spettatore a una visione prolungata, a una partecipazione attiva, a un totale coinvolgimento nelle dinamiche del linguaggio pittorico[12]. Le pennellate veloci[13] e allusive, quasi astratte se osservate da vicino, si ricompongono in forme solide e tenutissime, volumi corposi e profondità prospettiche, se apprese a distanza. Tutto si tiene, ogni parte è bilanciata con rigore per ottenere l’esatto equivalente di un dato fenomenico che conserva non solo la sua consistenza materica ma anche la sua densità umorale[14].
La stessa coerenza etica, la stessa precisione nell’affrontare la complessità del reale - sempre e solo in presa diretta - sono visibili negli en plein air di Alessandro Taiana[15], nei quali la disciplina dei valori e l’osservazione meticolosa del paesaggio dal vero sposano la presenza di un disegno che si precisa nella condotta pittorica e nel colore nel corso dei ritorni delle varie sedute.[16] Qui il tempo entra in contatto con il soggetto con incontri ripetuti, cosicché le sessioni di lavoro non sono mai singole; ciò accade sia per la complessità del motivo sia per le dimensioni della tela. Le pennellate staccate tendono a frangere il colore-luce in piani cromatici semplificati, più o meno larghi, nel tentativo - sempre riuscito - di penetrare nella geologia del territorio, o nella trasparenza del cielo senza mai cadere nel descrittivo, ma mantenendo alta la vibrazione della luce, la compattezza della forma o la nitidezza dell’aria[17]. Dal 2009, il pittore ha dedicato gran parte del suo lavoro allo studio della Sierra madrilena[18] con un linguaggio che muove dagli insegnamenti devalliani e lopeziani da un lato, dall’osservazione dei paesaggisti nordici e dei pittori dell’en plein air francese dall’altro. L’attitudine contemplativa, la ricerca del silenzio, della profondità dell’aria, dell’ampiezza dell’orizzonte, lo accostano - in particolare - al tedesco Friedrich, mentre la costruzione attraverso la giustapposizione dei toni e il “sedersi nella natura” all’agire del Corot paesaggista. Pur apparendo vedute di paesaggi, in realtà i dipinti di Alessandro Taiana non sono semplici figurazioni di “luoghi abbandonati dall’uomo”[19], ma dei veri e propri ritratti; tant’è che i picchi - spesso centrali, com’è prassi nella ritrattistica - hanno la medesima forza emotiva o l’identica tensione caratteriale di un volto[20]. Se si potessero mettere in sequenza la cinquantina di tele realizzate dal 2009 al 2016, facendone sottoinsiemi individuabili per conformazione, contenuto, luogo, luce o stagione, si potrebbe verificare, con chiarezza, l’intenzione di consegnare allo spettatore non solo la forma, ma soprattutto il carattere complesso di un luogo che l’uomo contemporaneo è sempre più incapace di conoscere o avvicinare, perché distante dalla natura o ad essa indifferente.
Nella lotta contro un tempo che aggredisce la presenza delle cose, nella ricerca della rappresentazione della poesia dell’istante (uno dei lasciti della poetica lopeziana a tutti gli autori presenti) Carlos Madrigal mette in gioco oggetti inanimati e figure umane stanti. Con uno sguardo “puro” - distante dalle passioni e privo d’emozioni, anche quando il soggetto è uno dei componenti della sua famiglia - egli si concentra sulla realtà mostrandone l’essenza più profonda. Nei suoi dipinti, le figure umane e i soggetti inanimati sono tracciati con disegno rigoroso[21], sono fermi nel colore, plastici nel volume e saldi in un’armatura architettonica che dialoga con la luce. Nelle sue nature quiete – dove s’incrociano la tradizione spagnola dei bodegones e quella olandese delle still leven – egli utilizza semplici fiori di plastica, illuminandoli con una luce elettrica. La presenza di fonti luminose e modelli artificiali, quindi mai soggetti a un’eventuale deperibilità, permette al pittore di ritornare ripetutamente sul tema. Ciò significa non solo ritrovare ogni volta un modello sempre uguale a se stesso, ma anche portare a compimento un’eternizzazione cronologica custode di connotazioni religiose.
La scelta di adoperare oggetti privi di qualsiasi piacevolezza estetica, ma carichi di una grazia dimessa e di una natura incorruttibile, il loro affioramento rivelativo dalla luce, la sacralizzazione laica del quotidiano, sono i punti di avvicinamento fra la poetica dello spagnolo e quella di Giorgio Morandi, maestro che è stato, e resta, uno dei punti di riferimento del pittore madrileno. La trasformazione iconica della realtà, presente nelle nature silenti di Madrigal, è un aspetto identificabile anche nei ritratti, dove il carattere contemplativo tocca il suo punto più alto: la concentrazione dell’artista si trasmette al modello che lo guarda, e di rimando ci guarda, con altrettanta imperturbabile intensità.
L’analisi del mondo, deprivata dall’assillo affettivo, l’assoluta dedizione all’estetica del dato fenomenico e la concreta percezione di un tempo eternizzato, sono alcune delle più evidenti peculiarità della poetica di Jorge Abbad. Il suo è un lavoro modellato con lentezza[22] e accudito con una cura scrupolosa, di volta in volta sottoposta a ricorrenti misurazioni, che siano l’osservazione del modello, il calcolo delle distanze e delle proporzioni, o le valutazioni dell’incidenza delle luci e delle ombre sulla superficie delle cose e delle figure.
Ogni aspetto del reale, ogni sua minima variazione al contatto con la luce, è oggetto di scandaglio attraverso una linea continua e netta. Anche per Abbad il disegno è una forma che sta all’interno di un argine delineato da un tratto sensibile ed esatto; una linea che ha la capacità di esprimere il volume, di far girare la struttura materiale e tattile delle cose. All’interno del segno si muove il pigmento; un colore sensibile, una pennellata, anche qui, evocativa che dice la luce ed esprime l’ombra e che - nell’alternanza dei rapporti tonali così astratti da sembrare stesure (eredità delle frequentazioni con Antonio López García e dello studio della pittura, fra gli altri, di Diego Velázquez) - produce corpo, spazio e tangibilità atmosferiche.
Le caratteristiche evidenziate nell’opera pittorica e grafica dei quattro artisti – che, nella singolarità del linguaggio, sono risposte coerenti a un’estetica comune - sono visibili anche nel lavoro di Pedro Quesada.
Formatosi nell’atelier di Francisco López Hernández[23], poi scelto da López García come assistente per quasi un decennio, lo scultore crea bassorilievi e figure a tutto tondo connotate da un forte realismo, mai corrivo o compiacente. Le sue sculture sono attraversate da memorie di mondi passati (le figure femminili, presenti in mostra, richiamano alla nostra memoria l’icasticità delle korai e delle figure egizie e la delicatezza e la compostezza delle danseuses del Degas scultore) ma sono prepotentemente calate in un presente nel quale cercano e riconsegnano senso. La loro precisa individualizzazione, sempre supportata da uno studio grafico dal vero, sia delle anatomie sia delle posture, evoca l’essenza dell’uomo (non unicamente quella del singolo, ma dell’intero genere umano); mentre l’imperturbabilità dei loro sguardi, congiuntamente all’essenzialità delle loro pose, pone domande sull’urgenza di pause e meditazioni. Questioni sollevate anche nei bassorilievi - sorta di compromesso fra scultura e disegno, nella pochezza dello spessore del rilievo - che conservano e, di conseguenza restituiscono, la leggerezza e la raffinatezza, la profondità e il corpo degli stiacciati donatelliani. Il silenzio diventa dunque metafora di un’atemporalità diffusa, di un istante immoto e iconico che, oltrepassando la cortina della materia, fascia il nostro spazio e si appropria del nostro sguardo.
Dopo la breve disamina del lavoro di Jorge Abbad, Carlos Madrigal, Alessandro Taiana, Riccardo Taiana e Pedro Quesada, non possiamo esimerci dal riaffrontare la questione che ha costantemente sollecitato la nostra ricerca; non possiamo concludere senza cercare a nostra volta, nei limiti dell’argomentazione, di guardare alla realtà e alla sua dimensione ontologica. Forse, per evitare tanto il realismo ingenuo, quanto la sua alternativa idealistica, la possibilità che si delinea è quella di intenderla come un processo sintetico, come l’unità indivisibile di un apparire e di una dicibilità, di un manifestarsi e di una parola, senza la quale sarebbe una fuggevole apparenza, un mostrarsi subito smarrito nel fluire di un altro apparire. L’oggettività non è prerogativa esclusiva della cosa, come non lo è della sola coscienza pittorica. L’oggettività è il modo d’essere della cosa che sollecita l’osservatore e che lo impegna nel suo sforzo di traduzione immaginativa; è il filo conduttore che accompagna fedelmente lo sguardo, la guida che trattiene l’occhio sulla cosa e che indica lo stato d’invarianza rispetto al suo inevitabile divenire. L’oggettività è allora la sintesi dialettica dell’apparizione e del linguaggio, del fenomeno e della sua raffigurabilità. Questo non è un vaso, un fiore, una montagna o un cumulo; questa è la realtà del vaso, del fiore, della montagna del cumulo che la pittura oggettiva, è il darsi della cosa che il linguaggio pittorico oggettiva nella sua sintesi raffigurativa, nel suo sforzo di adesione al reale. Per questo non si tratta di una pacifica trasposizione di piani, ma di una tensione, di una lotta tra dimensioni differenti. Il realismo di questa pittura e di questa scultura, oggi in mostra, non può prescindere da questo spazio agonistico di confronto, da questo luogo dialettico e conflittuale che chiamiamo realtà.
Jorge Abbad (Jorge Abbad-Jaime de Arágon Córdoba), Madrid 1987. Diplomato alla UCM (Università Complutense di Madrid). Coadiutore d’atelier di Antonio López García.
Ha partecipato a numerose collettive e personali presso istituzioni pubbliche (che ne hanno acquisito i lavori) e in gallerie private, sia in Spagna (Madrid, Barcellona, Malaga) che in Europa (Ulster, Edimburgo, Londra), ricevendo prestigiosi premi e menzioni (fra i quali B.p. Award, London). L’ultima esposizione alla quale ha aderito è stata inaugurata a Londra (National Portrait Gallery) nel giugno 2017. Vive e lavora a Madrid
Carlos Madrigal, Madrid 1960. Legato da stima e amicizia ventennale con Antonio López, ha partecipato a numerose collettive e personali a Madrid, Coslada, Albacete (Biennale, dove ha ottenuto il primo premio) e New York (dove ha vissuto per alcuni anni). L’ultima sua esposizione si è chiusa a Alcázar de San Juan Ciudad Real nell’estate del 2017. Vive e lavora a Madrid.
Alessandro Taiana, Como 1967. Allievo di Beppe Devalle all’Accademia di Brera. Dopo la sua prima mostra, nel 1987 a Milano, ha esposto in collettive e personali a Milano (Palazzo della Triennale, Museo Diocesano), Torino (Mole Antonelliana), Rimini (Castel Sismondo), Cáceres (Spagna), Murcía e Madrid. La sua ultima esposizione si è chiusa a La Granja de San Ildefonso nell’estate del 2017. Vive e lavora a Madrid.
Riccardo Taiana, Como 1967. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Milano con Maurizio Bottarelli; a partire dal 1992 diventa allievo di Beppe Devalle. Docente di disegno presso l’Accademia Carrara di Bergamo sino al 1998, anno durante il quale incontra – con il fratello Alessandro - Antonio Lopéz García. Dopo la sua prima mostra, nel 1998, espone a Parma, Bologna, Milano (Museo diocesano), Tokio (Museo d’Arte Stripe House), Rimini (Castel Sismondo), Valencía, Murcía (Spagna).
Vive e lavora a Milano.
Pedro Quesada, Madrid 1979. Diplomato all’Università di Belle Arti di Madrid, con Francisco López Hernández esponente di spicco della Realidad spagnola. Assistente del pittore Antonio López García dal 2002 al 2011.
Dopo la sua prima mostra, nel 2005, ha esposto ripetutamente in personali e collettive in Spagna, Olanda (Pulcri Studio) e Francia (Perpignan). Ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, l’ultimo dei quali a Madrid (Premio Reina Sofia) nel 2017. Sue opere sono state acquisite da musei e istituzioni pubbliche (Barcellona, Madrid, Malaga, Costa Rica). Vive e lavora a Madrid.
Un ringraziamento particolare a:
[1] Si veda Ernst Gombrich, Arte e Illusione, Torino, 1987, passim.
[2] Émile Zola, Revue dramatique et literaire, Paris, 1878.
[3] “Nel 1904 il pioniere più venerato dal modernismo e dell’astrazione– scrive Linda Nochlin - ammoniva Émile Bernard dicendo “l’artista deve guardarsi dallo spirito letterario che così spesso svia la pittura dalla sua vera strada – lo studio concreto della natura – portandola a smarrirsi in vaghe e remote speculazioni”. Linda Nochlin, Il realismo nella pittura europea del XIX secolo, Torino, 1989, p. 25.
[4] Si veda, a questo proposito il film documentario, dedicato all’artista Antonio López García, El sol del membrillo, diretto da Victor Erice nel 1992.
[5] A questo proposito si veda Giovanni Testori, La cenere e il volto. Scritti sull’arte del Novecento, Firenze, 2001.
[6] Pierre-Henri de Valencienne, Élements de perspective pratique à l’usage des artistes suivis de reflexions et conseils à un eléve sur la peinture et particulièrement sur le genre du paysage, Paris, 1800. Il pittore francese stabilisce che un lavoro en plein air deve compiersi in una seduta della durata massima di due ore; trascorso questo tempo, infatti, nella realtà inizieranno ad affiorare condizioni luminose che ne altereranno progressivamente i colori e, di conseguenza, la percezione.
[7] TEEM (acronimo di Tangenziale Esterna Est Milano) è il grande raccordo costruito a collegamento dell’autostrada BreBeMi con la tangenziale milanese.
La serie completa dei lavori legati al tema della TEEM comprende una cinquantina di tele. Se si potessero esporre in un’unica sede bisognerebbe prevederne il raggruppamento in sotto insiemi; ciascun lavoro, infatti, è un a sé (per luce, giorno, stagione diversa, ma anche per il soggetto preso a tema: fresati cementizi, bituminosi, asfalti o calcestruzzi, sabbie e macchinari) ma lavora all’interno di un’architettura complessa capace di restituire la monotonia del luogo, le tipologie formali dei cumuli, le categorie dei materiali ecc… secondo una prassi non diversa da quella usata da Lewis Balz durante la mostra dei New Topographics nel 1975 e nel lavoro successivo. Cfr. Britt Salvesen, The New Topographics, New York, 1975 (rist. 2013).
[8] A questo proposito si suggerisce la lettura di Gianni Celati, Verso la foce, Milano, 1992; Gilles Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Milano, 2005; Louis Baltz Scritti (in particolare Note su Park City), Milano, 2014.
[9] Il disegno è “un’operazione razionale in grado di organizzare i modi del vedere e del fare; è un ragionamento sulle forme ed è il fondamento di tutta questa pittura [quella oggi in mostra, n.d.a.] che è sempre disegnatissima anche quando non è disegnata”. Da un colloquio con Riccardo Taiana, Milano 2017.
La presenza di un “disegno assente” è pratica degli en plein air di Riccardo e Alessandro Taiana. Disegno non significa qui il tratto a grafite, tracciato sulla tela bianca e poi campito, ma il fare forma con il colore.
[10] In un periodo in cui caratteri del paesaggio non sono più il bello e il piacevole ma la devastazione (il territorio è bene immobiliare), il degrado, lo straniamento, la scelta di Riccardo Taiana ci appare modernissima e avanguardista.
[11] Sono i tre attributi che Devalle, della cui eredità intellettuale Riccardo e il fratello Alessandro sono custodi, riteneva imprescindibili per la riuscita di una pittura che si potesse ritenere tale. Per una prima conoscenza dell’autore si rimanda a Aa.Vv., Beppe Devalle 1940-2013, (catalogo mostra Mart , Rovereto, 16 ottobre 2015-14 febbraio 2016), Milano, 2016
[12] Durante una conversazione con un amico pittore è stato detto: “La pittura è un linguaggio e deve sempre mostrarne l’appartenenza”. Questo significa che lo spettatore dovrà sempre essere cosciente di avere di fronte l’apparizione della realtà, un suo fantasma, reso visibile attraverso la pittura e non attraverso un suo surrogato fotografico.
[13] La pittura en plein air obbliga alla velocità. Questo fatto libera dai manierismi e spinge alla ricerca di nuove soluzioni tecniche – per esempio la pennellata – poiché tutto si deve adattare alla luce. Se lo spettatore avesse dubbi sulla pennellata sapiente di Riccardo Taiana rifletta almeno sugli episodi che si vanno a ricordare di seguito. Ricorda Gombrich che Lomazzo, raccontando di una visita di Aurelio Luini alla bottega del vecchio Tiziano scrivesse: “vide un suo mirabile paese che haveva in casa, il quale subito visto stimò Aurelio una cosa empiastrata, ma poi ritiratosi di lontano gli parve che il sole gli risplendesse dentro, facendo fuggire le strade per questa et quella parte”. Rembrandt raccomandava ai suoi ospiti di guardare i suoi lavori da lontano, per tale ragione aveva anche inventato delle fantasiose precauzioni d’uso che prevedevano il divieto di “mettere il naso troppo vicino ai quadri” per evitare di “essere avvelenati dall’odore del colore”. Velázquez dipingeva con pennelli molto lunghi in modo da potersi mantenere a una certa distanza dalla tela; “i suoi ritratti, scriveva il suo biografo Palomino, sono incomprensibili se osservati da vicino, ma appaiono prodigiosi se visti da lontano”. Cfr., Ernst Gombrich, cit., 1987.
[14] Cézanne diceva che i colori dovevano trasmettere non solo l’intensità luminosa o il peso degli oggetti, ma anche l’odore del mondo. Questo è quello che fanno i colori-luce studiati da Riccardo Taiana dal vero. Disposti su una tela bianca, mai preparata perché la vera strada del contemporaneo (iniziata con gli impressionisti) si misura sul bianco, i toni dicono, per esempio, sabbia e cemento, asfalto e ghiaia, nebbia e vento.
[15] “I lavori di Alessandro Taiana - scrive Antonio Bonet Correa, già direttore della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid - continuano una tradizione che parte dall’epoca romantica, tocca il realismo del XIX secolo, le costruzioni analitiche dei cubisti, gli esempi degli onirici, dei surrealisti, dei metafisici italiani del 900 e occupano un posto di primissimo piano nel contesto artistico attuale”. La citazione in Aa.Vv., La Sierra de Guadarrama (testo in corso di pubblicazione, dedicato alla pittura di Alessandro Taiana). Si ringrazia A. Taiana per aver concesso, in anteprima, lettura dell’opera.
[16] Degas, spesso evocato sia da Alessandro sia da Riccardo Taiana, diceva “il disegno non è la forma, ma la maniera di vedere la forma”; una forma che sta all’interno di un contorno costituito da una linea sensibile, tesa, esatta che ha la capacità di esprimere il volume, di far girare la forma.
[17] “Dipingere il paesaggio – scrive Alessandro Taiana - significa, a partire dall’impressionismo, dare voce alla sensazione che il paesaggio produce, all’emozione dello stare nel luogo (i suoni, il silenzio, il caldo o il freddo, l’aria, l’odore, il trascorrere del tempo e delle cose). Dipingere il paesaggio è dipingere l’aria, la vibrazione della luce nell’aria”.
[18] Alessandro sale oltre i 2000 metri portando sulle spalle tavolozza, pennelli, colori, la tela e il cavalletto. Nella sua attrezzatura sono previsti anche martello, picchetti e tiranti perché, dove lavora, il vento può soffiare così forte da portarsi via tutto il lavoro, e la temperatura può essere così rigida da intorpidire le mani. Prima di sviluppare un tema, percorre più volte i sentieri d’alta montagna per cercare il punto di vista più idoneo, quello che Corot definiva “il sedersi”. Spesso gli capita di ritornare negli stessi luoghi anche in stagioni diverse o con condizioni climatiche differenti per verificare – come lui stesso dice – “se veramente valga la pena di imbarcarsi in un’avventura così complicata come dipingere dal vero”. Cfr. Alessandro Taiana, Pintando en el Guadarrama, Madrid, 2016.
[19] Si veda Gilles Clément, cit., Milano, 2005.
[20] “Il paesaggio – scrive Martinínez de Pisón - ha un volto che osserviamo e una dimensione interiore che viviamo: non è uno scenario, è una forma e la sua immagine, è la sua conformazione e il modo in cui la rappresentiamo”. Aa.Vv., La Sierra de Guadarrama, cit., (testo in corso di pubblicazione).
[21] Per una verifica si osservino anche i quattro disegni, studiatissimi, che richiamano alla nostra memoria certi lavori sottilissimi della numismatica rinascimentale e temperature vicine alla sensibilità del Realismo Magico e della Nuova Oggettività tedesca.
[22] Questa norma – appresa anche durante l’assidua frequentazione in studio del lavoro di Antonio López García - ha lo scopo di raggiungere un’intensità che superi quella della fotografia.
[23] Francisco López Hernández, Madrid 1932-2017. Rappresentante del gruppo del Realismo contemporaneo spagnolo con Antonio López García, Isabel Quintanilla, Julio López Hernández, María Moreno, Amalia Avia, Esperanza Parada.
AnnaMaria Chiara Donini, agosto 2017
Il testo è pubblicato in Paesaggi e figure del reale. Jorge Abbad, Carlos Madrigal, Pedro Quesada, Alessandro Taiana, Riccardo Taiana, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2017