14 Maggio 2008
di Silvana Turzio
Qualcosa di antico, come un sentimento di già vissuto, si fa sentire quando mi accosto alle immagini di Pentti Sammallahti, qualcosa che mi ricorda i libri illustrati dove da bambina imparavo a guardare le cose una per una e guardando nominavo il mondo. Questo era vasto e molteplice perché gli uomini e gli animali disegnati erano minuscole forme che costellavano il paesaggio, molto diverso da quello vero, che era invece animato da odori e suoni, e dove gli uomini e gli animali si scontravano in uno spazio molto più ristretto, e tutto aveva un peso specifico, reale. Ma, ammesso che sia così per tutti e non solo per me, ciò non basta per definire il potere magnetico che emana da questi lavori, un’attrazione che subiscono un po’ tutti, anche i più giovani.
Queste fotografie sembrano messe in scena ma non lo sono. Non c’è, d’altra parte, la ripresa ravvicinata che vuole fare della fisiognomica, non c’è esaltazione dei dettagli per raccontare la bellezza o la mostruosità di un oggetto o di un essere vivente, l’indagine sulla superficie delle cose non è per nulla motore di interesse né di emozione, ma non c’è nemmeno la volontà di indagine territoriale come avviene quando il lavoro è concentrato sul paesaggio, perché qui il paesaggio è molto particolare, più un disegno che una ripresa fotografica. Queste immagini non sono compiaciute né sono mosse da uno sguardo giudicante o pregiudizievole, e non sono prevedibili, al contrario, sono ogni volta portatrici di stupore: sempre, c’è un elemento che sta in bilico tra due cose, tra la luce e il buio, sul crinale di quel momento nel quale non c’è più il sole ma la notte non è ancora calata, quando si sta “entre chien et loup”, tra cane e lupo come si dice in francese; momento che trova rispondenza nelle tonalità, sfumatissime, dei grigi più fondi. Siamo quindi in una zona, o in una luce d’incertezza: quel bambino minuscolo sulla neve vicino al grande albero sarà vero o sarà falso? Che ci fa lì? Ce l’ha portato Pentti Sammallahti? E quei cani che simmetricamente e di concerto con una macchina agricola compongono un triangolo alla cui sommità un altro cane ulula al cielo, da dove diavolo spuntano? L’effetto è quello di un fotogramma estratto da un documentario girato in territori sconosciuti ma ricorda piuttosto una scena fantastica simile a quelle che giacciono alla rinfusa in qualche angolo della memoria e di tanto in tanto si fanno avanti a metà tra il sogno e la realtà. Insomma, quando guardiamo questi luoghi siamo anche noi tra il lusco e il brusco, tra il mondo reale e quello immaginario perché ciò che queste fotografie riprendono è di una perfezione formale e narrativa così inusuale da essere per l’appunto persino sospetta. È un mondo equilibrato e lento, nel quale le tonalità sfumate dei grigi richiamano quelle dei suoni e dei movimenti, anch’essi lontani, lenti a causa della grande distanza visiva, come se rumori e colori, e movimenti, sentimenti e pensieri obbedissero ad un’armonia generale che appartiene a tutte le cose, anche a quell’avvoltoio che forse attende paziente la morte della mucca. Ogni cosa ha qui una sua precisa ragione d’essere perché ogni cosa, ogni essere vivente, animale o uomo, è dimensionato in relazione allo spazio che lo accoglie.
Questa storia della dimensione è importante, è anzi la parola chiave di tutto questo lavoro. Intanto, va detto, le fotografie e I libri vanno insieme, l’uno a dialogare con le altre. I libri sono in piccolo formato, come lo sono anche le fotografie, in forte controtendenza con la moda che impera da almeno un decennio, da quando ogni immagine al di sotto del metro quadro sa di stantìo, un periodo nel quale persino I fotografi più documentari sparano fotografie gigantesche, mentre lui se ne sta nel suo piccolo e nel suo mondo. Piccolo il libro, piccola la foto, quasi un haiku. Pentti Sammallahti non si è mai mosso da lì, a suo grande merito. Allo stesso modo non si è allontanato dal libro d’artista, di dimensioni molto contenute, spesso a tiratura limitata, edito con cura maniacale, la stessa con la quale stampa le immagini. I libri sono quasi sempre accompagnati da poesie di autori finlandesi o da “immagini sonore” come nel caso di Andante, del 1984. La dimensione degli uni come delle altre è dunque consona alla progettualità del lavoro, all’ascolto di una realtà “imprevista”, come dice lui stesso, lontana e diversa da quella quotidiana. “Ero sotto il punto più alto del firmamento, nel punto focale della volta celeste e ho deciso di non muovermi – dice Sammallahti in suo breve testo – Archipelago, Opus, 2004 – in quel momento ho colto all’improvviso ciò che mi diceva la pietra accanto a me, il battello sulla riva… ogni cosa trovava il proprio posto. Ed è con riconoscenza che ho capito che è importante per un fotografo rendere giustizia a ciò che vede. Le fotografie non le si scatta, le fotografie arrivano”.
Le sue fotografie, come i libri, più che da vedere sono da sfiorare e da accarezzare con l’occhio tanto si è spinti alla vicinanza, tanto i dettagli, le sfumature dei toni sono così tenui da obbligarci a soffermarci per individuare le cose, tanto le figure animali o umane sono piccole e si fondono con la natura; e così avvicinandosi all’immagine si finisce proprio con lo scoprire ciò che vi è disseminato, esclamando: “un coniglio!”, “due anatre!” “tre cicogne!”, “una lingua di terra!”. Ed eccoci ancora bambini, eccitati per la scoperta e allo stesso tempo tranquillizzati perché ogni cosa ha un nome e sta bene lì dov’è, la cicogna nel nido, lo stormo nel cielo, il cavallo vicino al mulino, la scimmia sotto all’albero. E ci sta bene anche l’avvoltoio. Allora diventa più comprensibile quest’impressione di un déjà vu di forme e di emozioni che viene letteralmente alla luce guardando queste fotografie e che, passando dai ricordi dei libri illustrati per l’infanzia, risale alle incisioni di Rembrandt e da lì si riaggancia a certe illustrazioni giapponesi che suggeriscono, con pochi cenni, paesaggi sospesi tra realtà e immaginario, immemori del tempo eppure calati nell’istante, dove il pescatore solitario ha lo stesso peso dell’airone in volo. Perché in definitiva una cosa in comune c’è: la stabilità del mondo che emerge così evidente in questi lavori nasce dall’equilibrio tra l’attenzione acuta ma remissiva e i modi espressivi usati per dire o per rappresentare ciò che guardando si vive, anche e soprattutto emotivamente. Ecco quindi che la giustezza della distanza della ripresa, la finezza della gradazione dei toni, la buona dimensione della stampa e del libro diventano parte fondamentale dell’armonia che percepiamo. L’immagine del mondo è allora pacificata, anche a dispetto della realtà. E, non sta forse in queste scelte la differenza, radicale, tra vedere e guardare? L’opera di Pentti Sammallahti è quindi un abecedario che ci invita a guardare a nostra volta e guardando, a rinominare il mondo come nella nostra infanzia, permettendoci in questo modo di ritrovare un sentimento di appartenenza. E se è così, non è cosa da poco.
Silvana Turzio, Milano, maggio 2008
Il testo è pubblicato in Pentti Sammallahti. Aspettare l’immagine, catalogo della mostra, Galleria dell’Incisione, Brescia 2008
Pentti Sammallahti. Awaiting the image
An ancient feeling, something I have already felt, arouses when I approach the images by Pentti Sammallahti, something that reminds me of the picture books I used to read when I was a child and through which I learnt to look at things one at a time and by looking I named the world. That world was wide and varied, because its men and animals were minuscule shapes that constellated the landscape, it differed from the real world, which was instead animated by smells and sounds, and where men and animals locked horns in a much tighter space, and everything had a real, specific weight. But, assuming this feeling is perceived by everyone and not only by myself, it is not enough to describe the magnetic power of Pentti Sammallahti’s works, an attraction that is felt by everyone, even the younger generations.
These photographs seem to be staged pictures, but they are not. After all, there is no close-up shot that is intended for some physiognomic analysis, there is no exaltation of detail to assess the beauty or monstrosity of an object or living being. The analysis of outer appearance is by no means the driving interest or emotion, and there is not even the intention to analyse the territory when the work focuses on landscape, because landscapes in these photographs are very peculiar – they are drawings rather than photographic shots. These images are neither self-praising, nor are they moved by a judging or prejudicial look, and they are not predictable, on the contrary, they arouse surprise: there is always an element that hovers between two things, between light and darkness, on the brink of that moment where there is no more sunlight but night has not fallen yet, when you are hovering “entre chien et loup”, between dog and wolf, as the French say; a moment that is mirrored in the highly nuanced shades of the darkest greys. We are thus faced with a zone or a light of uncertainty: is that minuscule child on the snow standing next to the huge tree real or fake? What is he doing there? Has Pentti Sammallahti brought him there? And where do the dogs that symmetrically with a farm machine make up a triangle with a dog howling at the top emerge from? The effect is that of a photogram that has been extracted from a documentary that was shot in unknown lands, but it evokes a fanciful scene similar to those that lie mixed up in the corners of our memory and crop up from time to time between reality and dream. In short, when we look at these places we find ourselves in twilight) between the real and the imaginary world because these photographs are of such unusual, formal and narrative perfection that may even be questionable. It is a balanced and slow world, where the nuanced shades of greys evoke the nuances of sounds and movements, which feel distant and slow due to the great visual distance, as if sounds and colours, movements and thoughts obey to a general harmony that belongs to all things, even to that vulture that may be patiently awaiting the cow’s death. Everything here has its raison d’être, because every object, every living being – animal or man – is dimensioned according to the hosting space.
The issue of dimension is important, it is the keyword to all this work. Importantly, photographs and books go hand in hand, one dialoguing with the other. Books have a small format, just like photographs, countering the trend of the past decade, a period where images smaller than a square meter are old-fashioned, a period in which even documentary photographers exhibit gigantic pictures, while Pentti Sammallahti remains in his small world. The book is small, the photo is small, almost a haiku. Pentti Sammallahti has never budged from there, and this is his great merit. Similarly, he has never distanced himself from the artist book, which often has a small size, very limited circulation, and is published with obsessive care, the same care with which he prints his images. His books are almost often accompanied by poems of Finish authors or by “sound images” like in Andante of 1984. The dimension of both is in agreement with the project, with the attention given to an “unexpected” reality that, like he himself says, is far and different from everyday reality. «I was just under the highest point of the firmament, at the focal point of the vault, and I didn’t want to move – says Sammallahti in one of his short texts – Archipelago, Opus, 2004 – At that moment, the rock beside me, the boat at the shore, the cloud and the dotted patterns of migrating birds flying high up in the air became comprehensible. Everything seemed to have its place, even man with his toil. With gratitude I realized that the most important thing in a photographer’s work is not creation or imagination but the desire to see and to do justice to what one sees. I understood that you get a photograph, you don’t take it.»
His photographs, like his books, are to be touched and caressed with the eyes, because the closer we look, the more the details, the softer the nuances, to the point that we are obliged to stop to spot objects, the smaller the animal or human figures which are merged with nature. And by getting closer to the image, we find out what is scattered therein, by saying: “a rabbit!”, “two ducks!”, “three storks!”, “a tongue of land!”. And we behave like kids, excited at the discovery and at the same time reassured because each object has a name and fits in well where it is: the stork in the nest, the flock in the sky, the horse near the windmill, the monkey under the tree. And even the vulture fits in well. So, that feeling of déjà-vu of shapes and emotions comes literally back to light when we look at these photographs and, whilst evoking memories of childhood picture books, it reminds of Rembrandt’s engravings, and takes inspiration from some Japanese illustrations, which, with a few hints, suggest landscapes that hover between reality and imagination that are timeless but represent the ‘here and now’, where the solitary fisherman has the same weight of a flying heron. After all, there is a common feature: the world’s stability that emerges from these works stems from the balance between acute, but submissive attention and the expressive styles used to say or represent what you experience by watching, especially in terms of emotions. That is why the right distance of the shot, the fine nuances of tones, the good size of the print and book become a fundamental part of the harmony we perceive. The image of the world is thus peaceful, even in spite of reality. So, aren’t these choices what determines the difference between seeing and watching? The work by Pentti Sammallahti is a primer which invites us to watch and, by watching, we rename the world like we did in our childhoods, allowing us to sense a feeling of belonging. And if this is the case, the impact is great.
Silvana Turzio, Milan, May 2008
The text is edited in Pentti Sammallahti. Aspettare l’immagine, catalogue of the exhibition, Galleria dell'Incisione, Brescia 2008