15 Dicembre 1992
di Elvira Cassa Salvi
Una mostra singolare quella che Chiara Fasser ha voluto organizzare presso la «Galleria dell’Incisione». Una trìade di nomi indipendenti, autonomi, con l’unico legame d’essere bresciani e di vicine generazioni. Tre artisti che hanno raggiunto una pienezza e un rilievo d’alta classe dopo aver avuto, nella piccola prima sede della galleria (in Palazzo Fé), i loro natali.
Tutti e tre sono nati e stati scoperti là. La loro presenza e l’accostamento insolito testimonia anche la parabola ascendente di quel primo piccolo spazio espositivo (oggi sala vasta, elegante in via Bezzecca 4), che, nato in zona appartata, fuori le mura per così dire, e in un settore — quello grafico — ai bresciani allora ancora quasi indifferente, ha via via occupato un posto d’elezione, grazie alla passione, intelligenza, costanza e rigore, della sua direttrice.
Qui la nota caratterizzante della mostra è quella dunque dell’accostamento di tre artisti dell’ultima covata, ultima nel senso non strettamente cronologico, ma del loro attuale sfondamento delle barriere regionali.
Lì ho visti nascere tutti e tre, uno per uno, questi valenti esponenti di ben tre settori di creazione artistica mai incontrati prima. Sono stata al loro battesimo. Li ho visti ancora implumi, giovani allora ignoti, nei quali ho creduto e intuito le doti nascoste. Da lì hanno spiccato poi il volo fino ai traguardi d’oggi. Le date della bibliografia ne fanno prova.
Una parola ancora merita (prima di parlare dei tre), la gallerista che a Brescia ha esercitato quella stessa funzione — in forme e misure sue — pari alla indimenticabile «Galleria del Levante» milanese, con una predilezione per quella stagione incomparabile — simbolista ed espressionista — della Mittel Europa, fiorita tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo, e con una spiccata attenzione, prestata alla qualità degli artisti, facendo così ella del centro, un punto di riferimento per le personalità nuove ed emarginate: una specie di nido ove riparavano e riparano i dispersi e gli ignoti, spiccando da qui il primo volo verso orizzonti più vasti.
Ecco, ora dunque, Giuseppe Bergomi — (uno scultore è in certo senso un grafico nella modulazione delle sue linee appunto) —; ecco Diego Saiani ed ecco Giorgio Tonelli.
Quest’ultimo pare il più adatto per affrontare un breve discorso sull’orizzonte della grafica. Ci sono talvolta anche i colori nei fogli di Tonelli; ma i colori son qui davvero servi della linea e la linea, l’impercettibile perfetto solco che traccia le aree, impera non solo sul colore ma sulla realtà stessa, sulle sue forme libere, che, qui, apparentemente riproduce. Il bianco e nero, insomma, domina a tal punto da mandare sul fondo la melodia, ossia il movimento libero e imprevedibile della linea e del colore.
Ormai sono inconfondibili quegli spaccati urbani con le case squadrate e rifinite fino all’ossessione: agglomerati di alveari vuoti che hanno la apparenza di affinità con l’iperrealismo americano e la nuova oggettività tedesca; spettri di un mondo che una tragica magia ha fissato operando un effetto a rovescio del fuoco vulcanico di Pompei.
Qui è una Pompei impietrita da un malefico sortilegio, una maledizione biblica, e l’assenza totale di figure umane la rende ancor più sinistra. Ogni riferimento possibile è sempre a scapito dell’unicità tipica di un artista e non vale troppo cercare parentele. Quale distanza, per esempio — a voler frugare nei precedenti — da un Utrillo o persino dall’antico Belotto!
È — in Tonelli — una metafora della disumanizzazione che la tecnologia — dea sovrana del nostro tempo — ha operato, distruggendo l’umanesimo, culla della civiltà occidentale.
Bergomi sta per certi aspetti — età e settore — all’estremo opposto, pur impegnando, con rara forza plastica e con rarissimo governo delia drammatica emotività, lo strumento a prima vista freddo, tagliente del conflitto tragico — il più tragico tra i conflitti — tra pieno e vuoto.
Se il contrappunto di Tonelli assume, per natura sua, a protagonista il muro, la casa, le fabbriche, l’industria dimentica e deserta d’ogni impronta di calore umano, il conflitto drammatico di Bergomi elegge a protagonista la figura, il calore e il valore umano; la nuda figura umana che, nella sua pensosa immobilità frontale, assume il valore di chiave segreta, diversa e ineludibile d’ogni dramma umano, anzi cosmico.
Una posizione centrale, eccentrica, tutta sua, spetta a Diego Saiani (un figlio di Nave, oggi pratese), a quei suoi fogli dove l’estro fabulistico e l’area fantastica in cui si muove, sono tanto vasti e vari quanto fragile, umbratile, evanescente è, non in prevalenza, il tocco grafico, ma il tessuto figurativo, fitto e smagliato come lo è sempre la storia degli uomini, filtrata da millenni di memoria, o, se si preferisce, da stuoli di anime fanciulle.
Dopo tanti anni di fogli nei quali la trama imprevedibile della linea, — un ricamo fine e trasparente come un merletto di Bruges, così esile da apparir quasi bianco anch’esso — è comparso da qualche tempo il colore; e in particolare il pesante; e assieme al colore si è anche moltiplicata la rete dei richiami culturali, i più diversi e persino opposti: qui, sì, citabili: dal «primitivo» a Klee; rete che Sgarbi, in un denso e penetrante catalogo, ha magistralmente evocato.
Il colore non ha alterato la trasparenza grafica, il ricamo, il geroglifico che da sempre costituisce il sigillo della poetica sognante e fabulistica di Saiani; ma in compenso il nero, la macchia nera, si è fatta qua e là massa così densa e ostile da far pensare quasi a reminiscenze di certo Bacon o persino di Kline. Si direbbe che la cattiveria, l’ostilità che Saiani ha incontrato nella sua vita avventurosa e cruda, come quella dei grandi vagabondi, abbia appesantito il suo timbro in quelle trame che neppure l’intervento del colore aveva fin qui privato della loro trasparenza di trina fragile, segno d’una fantasia divagante, spaurita, insofferente di controllo e di regola.
Il contrasto tra quel nero e quella trina s’è fatto quasi un tema dell’ultimo Saiani; ma anche qui tema divagante, lungo la memoria delle suggestioni più diverse, eterogenee, «dalle pitture preistoriche ai graffiti primitivi». Così «egli dialoga con le ombre di Giacometti e di Varlin, l’unico pittore di questo secolo di cui si senta fratello...» (Sgarbi).
Ma eccoci alla fine ancora, all’ultimo, più giovane: Giuseppe Bergomi. Potremmo valerci di quanto scrivemmo in più occasioni fin dalla sua prima apparizione alla galleria di Chiara Fasser (da pittore qual era, a scultore). La sua eccezionalità è tale che — a un amico lontano, l’aver visto solo il catalogo e alcune foto — ha potuto suggerire impressioni di profonda e non comune emozione poetica.
«Scegliere di modellare l’argilla, coeva alla civiltà, mediterranea e solare ma anche capace di umanizzare (con le urne cinerarie) il regno delle ombre, di agganciare alla terra le mistiche medioevali... mi pare un atto di coraggio, di consapevolezza storica, di implicita indifferenza o insofferenza nei riguardi di ambigue poetiche postmoderne; ... significa avere dentro di sé una tradizione immensa diventata natura, e non acquisto intellettuale e occasionale».
Ciò che conta è il carattere proprio, personale, inedito di un’opera. Gli echi, i ricordi possono tradire a volte l’invenzione unica, indipendente. Quale altro scultore sa oggi fondere classicità e natura con una sensibilità e un’immediatezza così?
Quali parentele — a partire dal grande Martini — possono rendere la pura fonte da cui sgorga la scultura di Bergomi? E sgorga con un carattere così limpido e spontaneo quale solo la vita vera può attingere. Realismo, classicità.
Il pensiero abita lo splendore formale e imprime — col silenzio — il senso della vita. Inutile andare cercando — secondo il piacere e l’affanno filologico l’originale di questa intensità espressiva; perché — citiamo ancora — è qui «un'opera nuova che crea i suoi precursori e non viceversa».
Un ricordo di bellezza edenica sfiora queste giovani donne: ma senza sorriso, ma pensose, interroganti. Non «statue» ma «persone» che pensano.
È l’anno del Canova, del «divino» Canova. Ma quanto nel genio di Possagno è sublimato, in eleganze ricercate fino all’estetismo più sofisticato e di un languido erotismo, nel nostro giovane è spontaneo, genuino slancio, illuminazione; perché egli non idealizza, ma il suo è — in due parole radicali — realismo e natura —, ma abitati dalla coscienza del mistero vitale: l’essere o il nulla. Perfino le deliziose sculture piccole sono come bloccate dalla visione dell’enigma; ecco il segreto inafferrabile della bellezza grande e pura delle creature di Bergomi, nate da un animo forte e puro alla ricerca indomita della verità, senza estetismi e fuori da ogni avanguardia e formalismo.
Elvira Cassa Salvi, 15 dicembre 1992
Il testo è pubblicato in Giuseppe Bergomi, Diego Saiani, Giorgio Tonelli. Opere recenti, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 1993