30 Settembre 2007

Rose mutabili

di Concetto Pozzati

La mutabilità è improbabile come la stessa improbabilità deve rimanere improbabile e “la vera via passa su una corda che non è tesa in alto ma rasoterra. Sembra fatta più per inciampare che per essere percorsa. Da un certo punto in la non c'è più ritorno. È questo il punto da raggiungere”. Che avesse ragione Kafka?

Ma si può ancora “dipingere” rose? Quale sarà il “punto da raggiungere”?
C'è una specie di utopia, quasi un'illusione nel credere ancora... nel “proprio giardino”. È “illusione della fine” direbbe Baudrillard, una fine già avvenuta, quasi per cecità, sul ponticello di Monet.
Il paradosso, la dialettica, il doppio, l'ambiguo, il vero-falso, si trasformano in Ketty in un briciolo di speranza, se non di sfida, se non di illusione.
Sa benissimo di non progettare un futuro ma di avere una prospettiva, meglio dire un senso, per aggiungere (raggiungere) esperienze. La pittura, anche di una rosa, non è ri-produzione del mondo ma qualcosa di nascosto dentro al mondo, un mondo che ti ha fatto vedere tutto (anche rose, ovviamente) ma che devi rendere “autre”, “altro”, oltre la crosta del mondo” (De Chirico).
Bisognerebbe abitare un luogo inatteso nella stessa attesa ed essere consapevoli che il mondo si maschera dietro alla sua stessa immagine, producendo la sua stessa riproduzione.
Ma Ketty non vuole alludere ma sceglie di illudere (una rosa non è una rosa e se è conscia di non esserla può ri-vivere come rosa).

Le rose di Ketty sono un progetto dell'utopia.
Se la rivoluzione è divenuta normativa tutte le utopie si possono realizzare.
La fine del mondo, si diceva, è un'opera d'arte ma prima della fine bisogna raccontare la stessa fine.
Basta il senso di perdita e di fine o il con-fine se non il dopo-fine di una rosa per avere ancora desiderio di dirlo, di raccontarlo in silenzio, in lontananza, senza megafoni dopo il diluvio universale della comunicazione.

Queste rose non vogliono essere originali e introvabili ma non desiderano essere contrapposte alla originarietà.
Tutta la grande pittura ci insegna che originario e originale s'incrociano (De Chirico ancora ci avverte).
La rosa di Ketty non sa di non voler essere una rosa anche se conosce che ci sono state tante altre rose (da Crivelli a Magritte... da Pistoletto a ....) che hanno memoria di loro stesse.
Le rose di Ketty essendo simboliche appaiono e scompaiono in quanto l'arte è sempre “menzogna” e queste rose finalmente non sono più rose, non solo non profumano, non solo sono “morte” ma vivono in un utero, in un nuovo ombelico di un magico giardino che non dobbiamo più conoscere.

Esiste una re-esistenza che ti fa esistere e ti permette il lusso di essere “antico”e scegliere (incredibile!) ancora qualcosa dalla natura.
È una contropartita, contrattacco, un contropiede, e finalmente un'illusione. È procedere lenti sapendo che la comunicazione non ti ruberà l'illusione, al massimo metterà in rete una rosa, quella del giardino, non quella dell'atelier -che è la tana dei pensieri lenti- perché è una rosa “differente” è sempre mutabile.

Insomma la rosa è una rosa perché è un'altra rosa che diciamo, per comodità, che si chiami rosa invece di ombelico, tortellino, sesso, tutto così volutamente simulato ma che non vuole essere esplicito, svelato e socializzato.
Tutto è solitudine (la rosa è sempre una, sola e abbandonata, al massimo dialoga col suo negativo), tutto isolato, tutto reciso e garzato pur “etilicamente” disegnato, cucito, spinato, spillato da mani abili che conoscono i propri crampi, gli inciampi, il tremito ma anche le carezze della tela.
Ketty non vuol far vedere nulla perché ha già visto; sta ora a noi ri-vedere per ri-possedere e per ri-vivere, se ancora si può, dentro l'utero di una rosa.
L'esigenza di una doppiezza e contraddittorietà evidente in quanto, ci ricorda ancora Baudrillard, di non essere visti ma di “essere continuamente visibili”... quindi dover mostrarsi magari dicendo che quelle rose sono “del mio giardino”.
Che magnifico controsenso... che abile mistificazione, che eleganza pungente, che fragilità corposa, che voluttà nel recidere ...che ...che... non so più il per-ché.

La rosa è “ruota”, ombelico, occhio guardato, femmina che sboccia, sesso, amore, rossore, e la sua rugiada è forse la pittura.
Quel segno ossessionato di Ketty, quel segno ubriaco, arruffato si appoggia anche dietro, s'imbarocchisce, si annoda, si deforma e non forma. Il segno sveste la rosa non la veste; è un segno né araldico né progettato. È il segno che si fa fiore non è un fiore di-segnato. Segno anche erotico, eros come erosione, con i segni a fior di pelle, quasi tattile.
Il fiore è spesso un calice terrestre che accoglie le attività della pittura d'atelier come la pioggia dal cielo.
Un fiore a volte “manierista”, un fiore della carne, un fiore come ostaggio forse già ferito, un fiore disossato.
Pittura di segno indeterminato- determinato; il segno si fa pittura costringendo la pittura a farsi, rifarsi segno. Un ossessione conscia mappata e geografata in questa con-confusione di segni-senso.
La rosa stessa a volte è “veritiera”, a volte analitica, altre volte ribaltata e malinconica che richiede di farsi iniettare spine e spille nella sua carnosità.

La “rosa mutabile”- come l'immagine Garcia Lorca- “quando si schiude al mattino è vermiglia come i sangue... a mezzogiorno è dura come corallo... quando ...viene meno la sera diventa bianca simile a guancia di sale... e... la notte ...su un filo di tenebre a poco a poco si sfoglia”; forse per questo Palazzeschi dice che la rosa “si spampanava sulle spalle ...il décolleté...”, fa la prostituta in quanto esiste anche nei fiori una degradazione morale e sempre mutevole.

Ketty ha il desiderio di mescolare il passato col presente (non con l'attualità indifferenziata) per far emergere, per ri-tornare a svelare velando qualcosa di “naturalità” che sia “salvifica” però senza rumore ma anche senza troppo silenzio.
Intimamente a raccontarsi, come tanti, la sicurezza della presentazione e il dubbio della rappresentazione.
Esiste una tonalità nei suoi quadri tra il segreto e l'esistenziale, tra il nascosto e il sudario. L'immagine pulsa, ha battiti da respiro trattenuto anche se a volte aspirato, estroflesso, a volte smarrita e sola la rosa dialoga con l'invisibile, tra “contemplazione e spaesamento” se non galleggiamento.
Non sono profumi vegetali ma corpi... quasi cosificati (a volte sinopie) che custodiscono al loro interno l'enigma di una rosa e la sua intima malinconia.

Concetto Pozzati, giugno 2007

Il testo è pubblicato in Ketty Tagliatti. Rose mutabili, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2007

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