10 Gennaio 1998
di Ferdinando Scianna
Lungo tutto il suo straordinario e intensissimo cammino di fotografo Ferdinando Scianna ha ritratto gli animali. Che cosa hanno significato?
Gli animali sono esseri che partecipano dell'esistenza umana. Sono nella realtà del mondo come tutte le altre cose e così sono passati anche loro dal mio obiettivo nel corso degli anni.
A partire dalle foto di animali possiamo, quindi, ripercorrere la storia di Scianna fotografo. Come inizia e perché?
La storia è lunga. La Sicilia negli anni Sessanta stava vivendo, come tutto il Paese, un enorme mutamento di costume, specialmente per quanto riguarda i rapporti dentro la famiglia, anche se, forse, non profondo sul piano storico e culturale. Quella Sicilia che era stata per secoli la stessa stava finalmente cambiando. E io partecipavo a tutto questo. Cercavo un no simbolico. Probabilmente la cosa che mio padre meno poteva capire, all'alba del 1960, era che suo figlio gli dicesse: voglio fare il fotografo. Forse nemmeno io lo capivo del tutto: era qualcosa di molto velleitario, molto astratto.
A casa di Sciascia, dopo, incontrai due libri di Cartier-Bresson, Images à la sauvette e Les Européens, che fotografai pagina per pagina. In questo modo ogni singola immagine è come fosse entrata a far parte della mia stessa carne. E avevo trovato il mio vero maestro.
Le mie motivazioni erano allora principalmente politiche. Per cambiare le cose, in quegli anni dovevamo valorizzare la cultura di quelli che volevamo fossero i prossimi protagonisti del mondo. Fotografavo le feste religiose perché erano la manifestazione del modo di essere del popolo.
Facevo politica all'università, politica al paese e la fotografia era strettamente legata a tutto questo. Non è che volessi fare il fotografo e cercavo, per questo, che cosa fotografare, al contrario, siccome volevo dire certe cose avevo scoperto che con la fotografia potevo farlo bene e che la gente reagiva. Ma la fotografia era una lingua di cui non conoscevo né la storia, né le referenze. Così ho iniziato a cercarle. A Palermo trovai su una bancarella Da una Cina all'altra di Cartier-Bresson. Fu una cosa assolutamente sconvolgente. Poi comprai Moments di Irving Penn.
La mia vicenda fotografica non è partita dalla fotografia stessa ma dalle cose che avevo da dire. Con il mondo dei fotoamatori non ebbi allora alcun rapporto.
E poi l'incontro Con Leonardo Sciascia.
Gli avevano già fatto vedere mie foto quando l'ho incontrato per la prima volta. Leonardo mi ha dato la consapevolezza di ciò che stavo facendo. Sono convinto che la sua influenza su di me sia stata anche retroattiva. Dopo averlo conosciuto anche quello che avevo fatto prima di conoscere lui prese il senso di un itinerario.
Mandò mie fotografie su Palma di Montechiaro, che gli avevo mostrato, a Vie nuove, la rivista del partito comunista diretta da Davide Lajolo. Così mi sono ritrovato a diciotto anni con un servizio di sette pagine con i testi di Leonardo Sciascia.
Quando pubblicò Morte dell'inquisitore da Laterza, a Bari, mi consigliò di andare con lui per proporre all'editore un libro sulla Sicilia. Ci andai. Invece di questo libro ne nacque un altro per i tipi dell'editore barese De Donato che in quegli anni aveva stampato Verde Nilo, del mio grande maestro di storia dell'arte, scoperto all'università, Cesare Brandi. Appena viste le immagini De Donato volle fare un libro sulle feste popolari. Così è stato ed è nato il mio primo libro, con il testo di Sciascia. Avevo ventun'anni quando uscì, all'inizio del '65. Immediatamente fui partecipe dei furibondi attacchi a Sciascia che proprio a partire da quel libro cominciarono a scatenarsi ad ogni sua nuova pubblicazione. In Feste religiose in Sicilia, infatti, Sciascia diceva che la religiosità dei siciliani non ha nulla di metafisico, ma è materialista e molto secolarmente funzionale ai bisogni terreni. Affermazione che provocò persino una stroncatura sull'Osservatore Romano. Mi ritrovai così anch'io nell'occhio del ciclone. Niente di meglio per i miei propositi da contestatore.
Il libro, che fu allora definito il migliore libro fotografico dell'anno dal Popular Photography annual, mi servì da biglietto da visita quando poco dopo decisi di sbarcare a Milano, dove nel giro di un anno fui assunto a L'Europeo. Mi trovai, così, a imparare il mestiere di fotografo facendolo.
Ma non mi limitavo a fotografare in funzione dei servizi giornalistici. Fotografavo sempre, fotografavo tutto. Un istinto, una necessità nati ben prima di conoscere le teorizzazioni bressoniane. Non per nulla qualcuno mi ha definito scherzosamente un prete della religione bressoniana. La macchina per me è una sorta di protesi dell'occhio come ha teorizzato Cartier-Bresson. Un modo di razionalizzare quello che vedo e che vivo, di specchiarmi nel mondo. Un taccuino di appunti visivi.
Del resto lo stesso Fox Talbot è arrivato alla sua invenzione proprio perché non sapendo disegnare sentiva il bisogno di registrare il circostante.
Sì, anche per me è stato così. Me ne sono reso conto molto tempo dopo. Sciascia citava sempre Pirandello che diceva: ci sono duo tipi di scrittori, quelli di cose e quelli di parole. Una fortissima discriminante anche per la fotografia. Ci sono i fotografi che guardano il mondo per farne fotografie e quelli che fanno fotografie per l'esigenza di raccontare il mondo.
Lei fa sicuramente parte del secondo gruppo.
E' quello che spero. Il che non vuol dire che non sia fortemente e sensualmente coinvolto nei problemi formali, ma la ricerca formale fine a se stessa mi ha sempre irritato. Intorno a noi c'è la vita. Le fotografie servono per raccontare le tue rabbie, i tuoi desideri. L'uva serve a fare il vino, non il vino a fare l'uva, come diceva Picasso. La pittura ha il ruolo di produrre, attraverso le forme, significati, non quello di distruggerli allo scopo di produrre forme: e poi forme di che cosa?
Quindi si sente molto più vicino a uno scrittore che a un pittore.
Se potessi rinascere vorrei avere il talento di scrivere. Nella mia incapacità di scrivere, di dipingere, di fare politica probabilmente ho scoperto, come Fox Talbot, che solo attraverso la macchina fotografica avrei potuto raccontare il mondo.
Il fotografo non crea quindi?
Il fotografo ha la fortuna di potere costruire le immagini ricevendole. Il gesto del fotografare consiste nel ricevere, è un modo di leggere il mondo interpretandolo. E' nella maniera in cui sceglie i suoi rettangoli o quadrati di tempo e di vita che il fotografo finisce col costruire il suo mondo.
Però la fotografia è un mezzo: può essere utilizzata in molti modi.
Un artista può fare quello che gli pare con qualsiasi mezzo. Sciascia, ad esempio, utilizzava per fare letteratura anche mezzi che non sono propri della letteratura: documenti originali, carte giuridiche, processuali. Secondo il punto di vista crociano tutto questo non sarebbe poesia. A questa obiezione Sciascia rispondeva: peggio per la poesia! E io, cui pochissimo importa che la fotografia sia o no arte, sono solito dire: se non lo è peggio per l'arte!
Per me la fotografia è un'avventura del ricevere, per altri del fare. Del resto Brandi in Carmine o della pittura, un testo per me importantissimo, parlando della pittura chiariva già tutto questo. Prendeva come esempio la mela, un frutto che si vede, si tocca, si mangia; e questa è la prima accezione; poi se la metto fenomenologicamente tra parentesi ho operato una costituzione di oggetto, infine, terza fase, mi metto davanti a un foglio e utilizzo un sistema di segni, frutto di una tradizione, con i quali do vita a qualcosa che ha certo ancora una referenza alla mela, ma mela non é più, è il risultato di un sistema linguistico, una formulazione di immagine, secondo la definizione di Brandi. Ecco, la fotografia è altra cosa rispetto a questo: non posso, infatti, fare una foto di una mela dopo averla mangiata.
La fotografia è un indice.
Esattamente. La fotografia può essere utilizzata anche come materiale per produrre qualsiasi tipo di immagine. In questo caso non importano i mezzi, giudico i risultati. Ma la fotografia in quanto tale mi interessa per la sua specificità, unica, di essere nello stesso tempo linguaggio e documento. Machado diceva che un'espressione ben costruita lo interessava solo se era interessante la cosa che esprimeva. Condivido.
Per Cartier-Bresson la fotografia è una risposta immediata a una domanda. Prima della fotografia l'uomo non disponeva di uno strumento simile. Tutte le immagini erano frutto di costruzioni linguistiche, con la fotografia diventano figlie di una lettura interpretativa: quelle buone, si capisce. Il tutto in una sorta di coincidenza zen fra l'istante che non esiste e il fotografo che lo fa esistere. E non mi pare una cosuccia così umiliante.
Milano, gennaio 1998