29 Gennaio 2006
di Fausto Lorenzi
Anche l’Italia ebbe i suoi artisti di guerra, come lo furono Moore, Sutherland, Bacon per l’Inghilterra. Tra i nostri ci fu il milanese Francesco Fedeli (1911-1998), soldato semplice, ma aggregato col rango d’ufficiale-artista alla divisione Fanteria Ravenna che fece parte dell’Armir, il corpo di spedizione in Russia. I suoi disegni del 1942-43 dedicati alla campagna di Russia furono presentati a Brescia ancora sotto l’ala cupa della guerra, alla galleria Paganora. E un anno dopo la morte dell’autore, un nucleo di questi disegni fu ripresentato a Brescia, dalla galleria Gio Batta. Ora si presenta un altro significativo nucleo.
Fedeli era di fatto un corrispondente di guerra, e il Minculpop fascista vagliava i lavori che lui inviava, da pubblicare su giornali e riviste dell’epoca. Ma l’artista non fece più di tanto propaganda, e infatti molti lavori restarono nelle sue mani: più che imprese d’eroi e azioni di battaglia, come avrebbe voluto la retorica bellicista, pensò infatti di testimoniare quel che sopravvive dell’umano, nella violenza bruta della guerra.
Raccontò i nostri soldati al fronte, mortai, carri e automezzi, ma soprattutto le figure colte ai margini della battaglia, nelle retrovie, nella realtà quotidiana dell’occupazione della terra russa.
Nei suoi fogli ci ha lasciato una storia che, per castità di segno e di colore, può essere paragonata a uno schietto narrare contadino, a un fare filò nella stalla o nella baita di montagna, anche perché i veri protagonisti di questi schizzi sono proprio figure del popolo, italiano o russo non importa, legate alla terra, alla vita dei campi, dei fiumi, dei villaggi. Contadini-soldati per i quali viene da citare la testimonianza del sergente nella neve Rigoni Stern: “Avevano accettato la prova della guerra come una pestilenza, una valanga, un obbligo a emigrare, la miniera”; uomini, italiani e russi, che nelle notti di guardia “tremano come foglie di betulla”, che quando sono feriti urlano mama-mama e che al mattino fanno tacere i fucili su entrambe le sponde del fiume per raccogliere i morti.
Francesco Fedeli, inviato per celebrare la tronfia gloria mussoliniana, fu testimone invece di sofferenze e d’eventi terribili. Già nella Grande Guerra, nel 1915 poco prima di morire, nell’Esame di coscienza di un letterato, Renato Serra aveva registrato come la guerra altro non fosse che “una perdita cieca, un dolore, uno spreco, una distruzione enorme e inutile”, e che “la guerra non cambia nulla, assolutamente nulla, nel mondo. Neppure la letteratura”. Neppure l’arte, potremmo aggiungere, ma anche in Fedeli l’accanimento dello sguardo diventa consapevolezza che rende liberi: nell’umanità della sua registrazione, è l’arte che sa dare struttura alla memoria dell’offesa, che si carica di forza di monito perenne, di fronte alla barbarie.
I nemici infatti non sono altro che contadini che tirano carretti, viandanti, bambine con le trecce, donne col fazzoletto in capo, madri che allattano: Fedeli muove da un’esigenza documentaria, quasi etnografica (genti, luoghi, mestieri, usi, costumi, figure associate a nomi di località), ma s’intenerisce e i suoi ritratti giungono a noi come memoria di un’offesa collettiva alla gente del popolo, di quella terra di cui evidentemente Fedeli sentiva tutti figli, i contadini italiani in armi come le donne e i fanciulli rimasti nei villaggi dell’immensa steppa russa.
L’impegno qui, più che stilistico, è saldamente morale: anche carico di struggente lirismo, in certe figure di gravità perplessa e dolente. Il disegno in un artista che veniva dal clima silenzioso e incantato del novecentismo arcaicizzante dominante nell’Italia degli anni Trenta, ma ch’era stato allievo a Brera di Lilloni, a dire uno dei chiaristi lombardi, e che perciò s’era già volto a un sentimento della vita nuda e semplice, in una fisiologia anche svagata e lieve del tempo che scorre portando con sé le più piccole emozioni – segna qui la conquista progressiva di un trattamento più abbozzato e fresco, nella corsività dei gesti, ma soprattutto di un filo lineare più scarno, nel tenere insieme uomini e paesaggio come se tenesse accesa la luce dell’esistenza.
In altri fogli (a inchiostro, matita, tempera, acquerello, guazzo: usava tutte le carte, anche di archivi russi) si documentano spazi dilatati e desolati della marcia lungo il Don, assedi a colpi di mortaio, accampamenti nei pressi di qualche isba, messa a ferro e fuoco di qualche villaggio, feriti sorretti a braccia dai commilitoni, soldati nei pastrani, corpi affioranti dalla neve nel disgelo, anche in guazzi più lividi, a sottolineare i bagliori più cupi della guerra. Ma sono piuttosto vivide impressioni e semplici confessioni di poveri soldatini impauriti.
Probabilmente il compito affidato al corrispondente di guerra Fedeli, oltre la retorica imperiale, era soprattutto quello di tranquillizzare con i suoi disegni sulle pagine dei giornali i familiari a casa, di testimoniare la campagna di Russia come una avanzata di liberatori ben accetti alla popolazione locale: ma il suo umanesimo dolce e solidale ci dice proprio d’un riconoscimento della stessa semplice dignità umana, dello stesso travaglio quotidiano, della stessa inerme predestinazione che li avrebbe fatti quasi tutti morti nella neve.
E la litania dei nomi dei luoghi annotati sulle carte (Kantemirovka, Talalajevka, Starobelsk, Narobesck, Lipoka, Tomorovka, Makajevka) ha l’asciutta solennità d’una cronaca antica, che scandisce le stazioni di una Via Crucis, in quella che fu una ritirata così disastrosa che sugli scampati pesò quasi il torto d’essere rimasti vivi: “Là non c’è più nessuno”, dicevano. Nuto Revelli, altro severo testimone di quella tragica epopea, ricordando il rientro dei nostri ultimi prigionieri dalla Russia, a conflitto finito, ha spiegato più volte lo sbigottimento di chi in Italia non voleva accettare la spaventosa contabilità della spedizione.
E le isbe, i villaggi, le donne e i bambini dei suoi ritratti paiono anticipare la domanda che gli alpini in ritirata avrebbero fatto al loro sergente maggiore Rigoni Stern: “Ghe rivarem a baita?”.
Così, anche gli acquerelli e inchiostri di Fedeli, pur con la loro natura di noterelle sparse, rivelano tutta la loro importanza di scrittura d’umanità, e infatti l’autore stesso si rese subito conto, a guerra appena finita, dell’urgenza di far sapere, di esporre e far vedere: le cose che si dimenticano possono ritornare.
Sicché queste carte di scarna vita quotidiana al fronte, anche senza grida e orrori s’iscrivono in quel filone di lucida pietà davanti all’umanità violata, che indicò come urgente dovere morale degli artisti un grande espressionista come Beckmann, mentre assisteva sgomento all’ascesa al potere di Hitler: “Dobbiamo rimanere tra gli uomini, dobbiamo partecipare a tutta la miseria che verrà”.
Fedeli avrebbe poi continuato a fare il pittore, transitando dal realismo a sperimentazioni polimateriche di resa quasi murale: fu molto attento alla capacità dei suoi segni preziosi scavati nella materia di ricordare agli uomini l’amore, la luce, le tracce della civiltà, tanto che evocò menhir e incisioni rupestri (anche della Valcamonica) in presenze segniche totemiche, araldiche.
Negli ultimi anni, cieco, le sue materie furono graffite e digitate con la passione di chi credeva fino in fondo nella capacità di patimento ed emozione della materia, come d’una vita strappata alla steppa.
Fausto Lorenzi, 2006
Il testo è pubblicato in Francesco Fedeli. Impressioni di Russia, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2006