1 Novembre 1997
di Matteo Sturani
Arrivare a casa di Daniele Gay non è facile. Bisogna arrampicarsi per una stradina stretta e impervia, che gira ora intorno a secolari castagni ora ad enormi blocchi di roccia, su per i pendii che sovrastano l’abitato di Torre Pellice. Tra una curva e l’altra pezzettini di fondo valle si fanno vedere tra le foglie, ma intanto è un bosco sempre più denso quello in cui ci si trova immersi.
A farla questa strada ci si sente come Paperino mentre va a sfidare il cattivo Basilisco. Ad attenderci però non c’è il minaccioso castello ma, appena oltre un portone di legno, una costruzione molto singolare. Si tratta di una casa-davanzale, o di un davanzale-casa se preferite. È proprio così, un luogo dove si possono fare due cose: o buttarsi giù col deltaplano o appoggiare i gomiti e guardarsi i paesaggi. Daniele si guarda i paesaggi.
Poi ogni tanto scompare, e tu allora penseresti che si è deciso finalmente per il deltaplano, non è così. Con la testa e le dita piene di paesaggi va a rinchiudersi in uno stanzino e lì nessuno sa cosa capiti. Ogni tanto riemerge per una fetta di salame, poi di nuovo si rinchiude. Daniele si comporta in questo modo, tuttavia andando a trovarlo in un giorno di pioggia, uno di quei giorni in cui sembra che in Val Pellice abbiano tirato giù il sipario, ecco che presa una cartella, non senza un po’ di ritrosia, ti dice: “...se vuoi ho qui, come dire, alcune cose da farti vedere”. E allora zac! ...vengono fuori i paesaggi, piccoli e grandi paesaggi. Una Rana temporaria in un liquido dormiveglia, pezzetti di fondovalle mescolati a delle foglie, acqua, rocce, scaglie di luce.
Gli acquerelli di Daniele, prima ancora di stimolarci a un giudizio di valore, ci impongono, in modo prepotente, una riflessione su una nostra facoltà spesso trascurata: l’osservare. Quando si va a fare una passeggiata molto spesso capita di non riuscire a scorgere la rana, o gli altri elementi del paesaggio non tanto perché non li conosciamo e quindi non ne supponiamo la presenza ma perché non siamo capaci di osservarli; dopo un po’, pigramente, diventa più comodo relegare tutto, rane, colore delle foglie, profilo di una roccia alla dimensione anonima di sfondo. L’aria è pura, i passeri fischiettano però intanto tutto è fuori fuoco. La rara bravura di Daniele incomincia proprio con l’osservare. Daniele guarda il luccio sommerso, il tronco di un faggio, i giochi d’acqua di una cascata, un cielo sporco di nuvole; questo esercizio avviene con una tale attenzione che forse egli si spinge persino a pensare come le cose che osserva. Poi dopo... i pensieri d’acqua, di foglie, quelli delle ali di un Martin Pescatore si ricompongono nello stanzino in segni di colore, ora netti ora accennati, sul foglio di carta.
Se ci fermassimo ora nella lettura delle opere di Daniele Gay forse correremmo il rischio di vedere del manierismo nel suo modo di raccontarci i paesaggi.
Questo però non succede, e qui sta un’altra parte della sua bravura.
Così come poteva fare Salgari sulle sponde del Po, o un signore francese nelle serre tropicali dell’orto botanico di Parigi, così fa Daniele dalla sua casa-davanzale della Val Pellice.
Egli mescola le carte, cambia la forma delle foglie, riempie di luce mediterranea un bosco di montagna, sospende nella nebbia delle rose, combina scherzi.
Tra i suoi, vi sono alcuni paesaggi invisibili in cui capita di intravedere Alice che prende il tè con Tremal-Naik.
Matteo Sturani
Il testo è pubblicato in Daniele Gay. Tempere e acquarelli, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 1997