20 Febbraio 2015
di Marco Vallora
Ripiegate, afflitte, chiuse sopra di sé. Chissà perché mi viene spontaneo declinarle così, al femminile. Come delle monachine palazzeschiane, delle oranti, rinchiuse a circolo, intorno ad un soffocato, crepuscolare fontanile arturo-martiniano. Perverse Suore Angeliche, senza collante d’alcun rosario. Impacchettate a tulipano, a cucchiaio, a lampioncino, a capucine nasturzie: piangenti e replicate. È la prima reazione che mi viene istintiva, ripassando veloce negli occhi le tabule narrative, i recenti tarocchi mistici di Saiani, gl’ectoplasmi vitaminizzati ed in buona salute, che trovo come rimpolpati, rispetto agli scheletri rupestri di tanti suoi altri evi trascorsi, rispetto alle sue primitive e sorprendenti grillerie grafiche, gracili e schematizzate, come liofilizzate da una forza aspirante, dematerializzante. S’è come manifestata, ovunque, e diffusa, una ‘cura’ iniettiva di matericità imburrata, una coltre spessa ed impiumata, di goduriose spatolate d’avorio, grasse e sprimacciate, ingollate di bianco paglierino e di tasselli musivi, di lattea pittura cagliata. Per questo mi vien voglia di riconfrontarmi con quei fantasmi passati e metabolizzati dall’oblio, che me li rimanifesta nella disfatta memoria, attraverso lampi confusi e silenzi visivi, che esigono un confronto testuale ed un raffronto iconografico. Ritrovo fortuitamente testo ed immagini del vecchio testo d’incontro con Saiani, e verifico, ancora una volta, la meraviglia della smemoratezza vittoriosa, che ti permette di rileggerti, da zero, come se non avessi mai scritto tu, quelle righe strampalate e riemergenti (in questo senso, davvero mimetiche, agli stecchini fantastici ed ai cerini anatomici, del contro-dizionario figurativo di Saiani). Intanto ritrovo un exergue, che allora, forse, era velato da un pudore d’occasione, d che oggi posso anche come slacciare; perché mi pare un aneddoto così gustoso, che val pur la pena di rilessarlo, con allegra bonomia. Ha a che fare con un amico comune, pratese, che le cifre cifrate d’allora, non possono che tradire come Andrea Martinelli, probabile trait-d’union… non ricordo, davvero, chi sia stato il primo a farmi scoprire Saiani. Se lui o l’amica Chiara Fasser, che oggi mi riinvita a scrivere di Saiani, o forse entrambi: in affettuosa sintonia.
Dunque, l’exergue: “Il pittore Diego S. fu invitato in campagna da amici del pittore Andrea Martinelli. Il posto era magnifico: luce, silenzio, cibo, si trovava davvero benissimo. E gli scappò d’un tratto un’esclamazione di piena ammirazione, convinto: ‘ma è proprio un posto da Caproni’. Seppe, soltanto molti anni dopo, che i due padroni di casa l’avevano proprio presa malissimo, ‘un posto da caproni!’, ma come!?. La Poesia, come si vede, si posa dove può. E dove vuole. Ed è anche, talvolta, questione di Maiuscole’. Così mi veniva facile, allora, giocare con le parole e le minuscole, tanto più che anche nell’iconografia di quegli anni, eran presenti come delle figure animali e rupestri, dei crittogrammi camuni, dei caproni e dei toreri del Bisenzio, che potevan vagamente evocare le tauromachie di Picasso e di Masson.
Oggi tutto questo è scomparso, ma non è scomparsa questa curiosa preminenza-passione per una sorta d’abecedario cabalistico e cifrato, con lettere in librata libertà aerea e simboli perduti d’un rebus insensato, d’una lingua senza più nemmeno fonetica od ambizione di riallacciamento semantico (un tempo l’artista mi confessava: ‘sì, mi piace la lingua danese, perché è piena di h e di k’). Le strane, vaganti ‘K’ di Kafka e di Klee, che con lui vanno a braccetto, in strane passeggiate incestuose, entro tappetini folklorici di spartanità e sparagninità tutta amish. Una sorta di frammentata stele di Rosetta, che ha perduto ogni possibilità di decifrazione pedante ed irrigimentabile.
Se allora scrivevo (ed era tutto motivato dalla grafica macilenta ed anoressica di quelle figure-fiammifero, che abitavano stanze imprevedibili e spazi sottratti, da romanzo istoriato di Sterne, o da caravanserraglio di Grandville), se osservavo: “Ma proviamo a saltare dentro le stanze non ancora riordinate (siamo arrivati troppo presto, di mattina) di questo curioso Satie del Bisenzio, che risolve tutti i suoi rovelli in veloce grafia del nervoso, e la cui ‘pittura del ca’ ci fa accomodare sulle spine, direttamente sopra le sponde sfondate dei suoi inospitali divani, carichi di carte, di ritagli di giornali, di rabbiosi proclami, di titoli addormentati… anche Satie aveva composto la sua brava, ribelle Musique d’ameublement”, ebbene, oggi, delle gremite fotografie della sua casa-atelier, di strampalato ‘ammobigliamento’, che m’hanno raggiunto via mail, mi danno il tardo conforto, che quella sorta di geografia immaginaria, utopica, che avevo come almanaccato ed immaginato allora, si è come progressivamente materializzata, e depositata, come una polvere fecondissima e perennemente incinta. In una sorta di stanza-puzzle, ove le tele si stipano e rincorrono ed inscatolano, quasi si assommassero e si ammonticchiassero, come dei friabili ziggurat d’impilate carte d’osteria, e che come variopinti insetti d’una zoologia fantastica, d’una erboristeria animale, d’un erbario entomologico, guadagnassero pareti, divani, tavoli, con una bulimia disperata e gioiosa: in una partenogenesi spontanea e rizomatica, ramificata, rigogliosa.
Curioso, allora, tempo addietro, alludendo a questa sorta d’immaginario vergine, se non addirittura barbaro, preistorico, di figure a-iconiche, irrelate e sfibbiate da ogni riferimento grafico preesistente (“non ancora vidimate dall’Ufficio di Controllo Iconografico, o catturate dal Dizionario Ufficiale delle Figure: forme fumiganti e fuggitive, pre-formate o sformate, che si posano un attimo sulla carta dello sguardo, quasi dovessero presto ripartire per una lunga migrazione maculata”) mi rispecchiavo, io, in un’analoga amnesia delle parole ermetiche ed ermeneutiche, che per riflesso e sintonia, avevan perduto, per un attimo eterno, ogni loro prosopopea ortografica -e non riconoscevano più nemmeno la loro evaporata significanza acustica. Ed avevo scritto, allora, preveggentemente, suggestionato dalle pre-forme di Saiani: “Avrò imparato mai davvero l’ortografia, questa ortopedia inutilmente ingessata del senso?”. Adesso, il destino vuole che l’ortopedia, la vera, scalpellante ortopedia medica, e non metaforica, si sia infilzata per un attimo nella mia vita, rompendomi timpani, tibie, peroni e rotule, e trascinandomi in un letto, da cui scrivo (e così vedo e scruto le impasticcate pitture vaganti di Saiani, da un’altra prospettiva: analgesico-sdraiata). Se allora, a dominare, tra primordiali figurine alla Soutter o alla Penck, e funeralini laici di Zavattini, oppure graffiti gotico-incisi, da Livre de Portraiture, di Villard de Honnecourt, era protagonista la juta cruda, macchiata dall’impronta bruta del catrame, oggi è invece proprio una materia pastosa ed ingessata, a tenere insieme, e cementare, queste sagome, convergenti e piegate, piagate da un dolore lenito e come distillato.
I cani geroglifici continuano ad usmare la loro campestre spiralità; uomini-vaso od anfora o clessidra, alla Brauner, gesticolano muti, in una segnaletica da aviatori autistici, in strane danze, da dervisci, incastrati in lugubri fox-trot. Strane cerimonie liturgiche, di una massoneria infantile ed infagottata di mutismi gutturali e slavi, alla Larionov, alla Gontcharova e alla Exter; magari auscultando da lontano i ritmi primevi di Roerich e la sua Sacra della Primavera, oppure i sogni planetari e boreali di Vrubel incestuosamente intrecciati a quelli di Ciurljonis, senza dimenticare nemmeno il tardo Klee, malato e scrivente, o lo Schoenberg pittore, allucinato e spiritico. Tra Gabriele Muenter e Marianna Werefkin, curiosissime assonanze ‘naturali’. “La pittura di Saiani, spettinata e impaziente” scrivevo un tempo, “ti fa entrare”, nelle sue strane stanze, incantate e come prive di prospettiva, “borbotta il suo labile ‘s’accomodi’, ma poi ti sottrae la paglia della sedia, sotto le tue aspettative, proprio all’ultimo istante, traditrice. Sotto al culo -compermesso- dello sguardo. Giocando di banderillas. Tutt’intorno si affrontano, infatti, con lo spadino immaginario di replicati Cavalieri Inesistenti, stalagmiti di omini appesi al vuoto muenchhausen (più che non Munch) delle loro smanicate giunture. Quasi filiformi pipistrelli, sospesi sulla volta cruda d’una grotta primitiva. Hidalghi-pittori con gli occhi a fanale e capelli à la Liszt”. Ecco, tutto questo è come scomparso, a favore di figure più corpose e floreali, midollari ed impiastrati dal piacere nudo del fare pittura. Ed ogni volta che si scopre un artista che si rinnova e si riinventa, il piacere è coinvolgente e confortante.
Marco Vallora, febbraio 2015
Il testo è pubblicato in Diego Saiani. Opere recenti, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2015