Bresciaoggi, 29 dicembre 2007
di Giampietro Guiotto
Al di là delle porte di Roma, tra la fine ’800 e gli inizi del ’900, la campagna era desolazione, malaria e miseria. I movimenti del bestiame vagante erano talmente lenti da farlo apparire immobile, mentre i poveri tuguri sembravano abbandonati dall’uomo e dal tempo. Il pittore e scultore romano Duilio Cambellotti (1876-1960) conosceva bene queste agre terre tra Civitavecchia e Terracina e colse in quella solitudine di paesaggio e in quella durezza di lavoro agricolo il legame indissolubile tra uomo e natura, tra tempo presente dell’uomo e tempo eterno della natura. Il pastore avvolto nel suo nero pastrano, non lontano dai bianchi buoi, o le donne cariche di figli e di attrezzi, agli occhi dell’artista perdevano la consistenza del reale, per diventare i nuovi eroi del duro tempo contemporaneo. I temi del lavoro e i valori della società contadina trasfiguravano la dimensione mitologica e inseguivano la memoria dell’uomo, per rappresentare verità civili, morali e politiche.
L’arte di Cambellotti diventò opera di apostolato sociale antiborghese, cura e rappresentazione dell’oppresso, umanesimo socialista che, con la sua carica simbolica, promuoveva la pietas. Questo amore verso l’umanità e il mondo e l’osservanza di valori, quali la fede, la famiglia e la patria, confluirono in un’arte edificante, e quindi utile all’uomo, portatrice di valori universali.
Il venir meno del conflitto artistico tra arti maggiori e minori nei primi decenni del ’900 favorì, poi, l’artista nella sperimentazione delle diversi tendenze e lo incitò a proseguire nella sua idea di arte totale. Da qual momento la sua attività di pittore e scultore si espanse verso nuovi linguaggi, dal cartellone pubblicitario all’illustrazione di libri per ragazzi, dal costume alla scenografia teatrale, dalla decorazione d’interni all’arredamento.
Ogni mezzo doveva condensare il messaggio estetico e pedagogico, esprimere la bellezza e l’ispirazione che veniva dalla natura, la solidarietà verso le classi incolte e disagiate, mentre la rapidità dell’esecuzione tratteneva l’espressività dello stile cambellottiano, fatto di pochi tratteggi sfumati e di accenni iconografici, atti a sollecitare la fantasia dell’osservatore. Nella sinteticità del segno e nella stilizzazione delle figure, le immagini sembravano comparire da un tempo remoto, assorbire la narrazione e illustrare compiutamente il testo, per poi svanire nell’evocazione del racconto e nella trasmigrazione dei simboli. Segni e varietà di tecniche costituirono un unico racconto, in parte visibile, al museo dedicatogli a Latina: dal gioco intermittente di luce e ombre, palpitante nelle vetrate della cappella della Flagellazione a Gerusalemme del 1927, alle sollecitazioni allegoriche, disseminate nei pavimenti, mobili, maniglie e lampade nel Palazzo dell’Acquedotto a Bari, fino alle opere su carta - tempere, disegni, acquerelli, nonché il bozzetto esecutivo per il Manifesto dell’Esposizione Nazionale di Torino del 1898 - , ospitate in questa mostra bresciana, nelle quali si rincorrono le atmosfere mitologiche di sempre, gli archetipi della storia, ossia l’eredità dei simboli del mondo.
Giampietro Guiotto, Bresciaoggi, 29 dicembre 2007