10 Giugno 2010

Elio Ciol. La luce incisa

di Chiara Ciol

La fotografia, al pari della scultura, vive di luce. Eppure tale arte, forse più di qualunque altra, ha molti lati oscuri: li esige. Il termine che designa tale attività dichiara una verità immediata e imprescindibile: è la luce che forgia l’immagine. Il professionista però, che scatta la foto e la stampa, sa che è tra le atre ombre di una camera oscura che questa affiora, protetta dalle tenebre che avvolgono la pellicola sulla quale è impressa. È nel buio che essa emerge; solo da lì può venire alla luce.

L’impronta del reale, non diversamente da quella tracciata su un foglio di carta, sembra originare da una realtà non tanto duplicata quanto duplice. È il caso del bianco e nero: due entità contrapposte, spesso speculari, capaci di cancellarsi e nondimeno necessarie l’una all’altra per essere distinte e affermarsi, per esistere ed essere percepite come tali. Due nature irriducibilmente diverse, in sé complete ma anche complementari, capaci di compenetrarsi e di dialogare. Due assoluti dai contorni sfumati, insondabili e arcani come la vita e la morte, che partecipano del medesimo mistero dell’esistenza. Tra questi poli, dei quali scorgiamo solo le gradazioni intermedie, si snoda la nostra vicenda e si dipana l’intelligenza: luci e ombre marcano il nostro procedere, ci consentono di valutare distanze e al tempo stesso ci misurano, ci connotano e ci differenziano, abitano i recessi più reconditi dell’uomo e del mondo, ci permettono di indagare il cosmo e ci aiutano a conoscere noi stessi. Forse è proprio per questo che Elio Ciol può usare la dicotomia originaria che è alla base del processo fotografico per carpire l’essenza delle cose e restituire l’intima struttura dell’universo. Consapevole che luci e ombre permeano le pieghe della vita, egli segue, col bianco e nero, le tracce di tutte le possibili cromie.

Nero e bianco, terra e cielo, non sono solo elementi primari per narrare una storia ma dimensioni così vaste e profonde che all’essere umano non è dato abbracciare o comprendere appieno; tantomeno catturare con un’occhiata. Tuttavia è tra questi luoghi, che sorprendono e spauriscono, che si sofferma, paziente, lo sguardo e l’analisi dell’artista. È tra essi – sembra dirci la prima immagine - che si compie il nostro destino: la dimora che possediamo è sempre e soltanto un orizzonte aperto su una o più spalancature.

La ricerca dell’equilibrio che caratterizza queste foto accomuna anche le persone. Sospese tra infiniti, vengono anch’esse chiamate a confrontarsi con qualcosa di indefinito, visceralmente estraneo e altro rispetto a loro, che le ammonisce che ciò che sembra inconcepibile – e che pure è percepibile - esiste e in quanto tale, pur rimanendo misterioso e in parte incomunicabile, può essere ritratto. Di fronte a ciò che è privo di confini ognuno può sperimentare che le realtà esteriori, finanche spirituali, sono altrettanto vere, presenti e innegabili di quelle interiori.

Queste immagini ci invitano ad andare oltre le apparenze, rammentandoci quanto possa variare la consistenza delle cose e come, a seconda dei punti di vista, possa tornare diversa. La luce, che imbeve e marca i panorami di Ciol, sottolinea, plasma, evidenzia, solca, accarezza, esalta, purifica, tocca, dissolve, svela: muta, si direbbe, la propria natura e incide la realtà in modo diverso. Gli atomi eterei che la compongono possono essere riflessi e permeare la terra, acquistare sostanza e farla perdere all’oggetto su cui si posano, prenderne addirittura il posto ed essere, al tempo stesso, costretti a duplicare una faccia del reale: come l’acqua, che fluisce o ristagna, che irrompe o che, al contrario, giace quieta e trasparente al punto da far scomparire la sua stessa evidenza.

Come pioggia la luce può precipitare sulla terra: è neve: un cielo che si spoglia e si appoggia sulle cose, si fa tangibile, palpabile, ma non imprigionabile. Un agente che oblia gli scenari più solidi, modifica le consuetudini e rinnova la vista.

Luce è anche la nebbia: presenza diafana ed enigmatica, visibile e inafferrabile, che nello spazio sospeso di un sospiro ci fa intravedere l’essenziale. È una luminosità capace di velare, carica di un incontro che promette e gelosamente serba. È il condensarsi dell’invisibile che celando svela, l’astratto che si concreta, un grumo di vita sospeso nel vuoto, un tutto entro il nulla. L’arte, come la nebbia, va decifrata; ciò nonostante prende forma senza alcun bisogno di proclamazioni teoriche. Come la nebbia essa ci mostra la densità del silenzio: quello spazio vibrante e avvolgente – nel quale accade - che è alla base di ogni autentica comunicazione.

L’essere taciturno del fotografo appare allora per quello che è: non ritrosia, bensì apertura: disposizione ad ascoltare e intendere più che a parlare di sé. Contrario rispetto al caos, il silenzio denota un ordine interiore che è l’ordito sul quale possono essere intessute relazioni interpersonali, sperimentate insolite geometrie, definite nuove geografie. È misura dell’infinito che possiamo accogliere in noi.

Rapida o lenta, diffusa o radente, la luce disegna e trasforma, assieme all’uomo, i paesaggi che attraversa. Ci mostra, al di là di questo, come un fattore esterno e transitorio, che potrebbe smarrirsi tra distese sterminate, possa invece insinuarsi nelle realtà più minute, abitare i particolari e riuscire a illuminarli dall'interno. Quando ciò si realizza esperiamo l’inconsueto: il solidificarsi della luce, per esempio, e lo sbiancarsi degli elementi. Simili alle sequenze innevate, le foto all’infrarosso presentano un ribaltamento dei toni chiari e scuri. Il fulgore che balena inatteso da corpi terrestri si contrappone a cieli contrastati, pesanti, materici: privi di una luce caduta al suolo e in taluni casi, per questo, assenti.

La luce, dunque, parla anche di terra. Aspra, cruda, nemica, oppure irradiata, gentile, feconda, essa registra le durezze e la poesia di una vita condotta in una regione, ferita e avara, conquistata dalla caparbietà e dai sogni di prosperità dei suoi abitanti. Lavorato con pazienza e fatica, nel tentativo di controllare una natura non sempre provvida e benevola, il territorio del Friuli-Venezia Giulia reca memoria dei valori che l’hanno scolpito. Essi dicono l’armonia e il rispetto verso un microcosmo nel quale, umilmente, gli esseri si riconoscevano membri di una realtà che li sovrastava. Queste zone, chiaramente e inconfondibilmente personalizzate, sono visitate da un occhio - altrettanto disciplinato - che, dirigendo il nostro guardo in direzioni precise, manifesta la spiccata personalità che lo domina.

Tramite la percezione il fotografo legge e interpreta ciò che lo circonda, spartisce una conoscenza, abita, prima ancora, un mondo e lo condivide. La vista ci situa infatti nell’universo ponendoci in relazione agli altri enti. Ci obbliga a instaurare rapporti. La diversità nel condurre questi ultimi determina uno stile di vita: un modo di vedere e vivere l’esistenza. Parimenti, la maniera in cui si esprime Ciol (ovvero il suo stile) non è una mera questione di tecnica – che egli peraltro padroneggia - bensì di visione. Il fotografo non guarda secondo l’obiettivo, ma attraverso di esso. Il progresso tecnologico ci porta talora a dimenticare che la fotografia non è mai stata una semplice lastra impressa dal sole; sempre, piuttosto, un supporto da sviluppare con l’intelligenza e (se necessario) con altri sali.

Quantunque l’osservazione colleghi inestricabilmente la visione alla riflessione, occorre ricordare che per vedere non è sufficiente pensare. Le geometrie e le geografie che l’artista raffigura sono reali. Elio Ciol può rappresentare l’ordine e l’armonia perché esistono attorno a lui. Il fotografo non inventa (se non nell’accezione latina del termine): trova. Seppure volesse essere astratto non potrebbe, comunque, eludere un collegamento diretto col mondo reale. Con quest’ultimo, di fatto, la fotografia, a differenza di altre arti, mantiene un nesso stretto e necessario. I disegni che l’autore scorge nel creato sono segni, antichi o recenti, di un’opera che è prima di lui e che lo attende. Sono simbolo di una creazione che, lungi dall’essere conclusa, di continuo si rinnova. Al pari degli altri viventi anche il fotografo può modificare l’ambiente, ma dinanzi al firmamento si scopre concreatore, non creatore. Mirando il cosmo si avverte scrutato, fissandolo si accorge che coglie solo ciò che accoglie in sé, provando a dirlo registra e trascrive lo spirito dei luoghi.

Vi sono, in ciò che fa, la responsabilità e la scelta di una testimonianza (che si riflette nella selezione dei soggetti così come delle inquadrature, nella predilezione per il bello piuttosto che per il deforme), congiunte alla pazienza, alla modestia e al rispetto consoni a un traduttore. Intesa in tal modo la professione fotografica si profila meno come una libera forma di espressione e più come un compito, un costante esercizio di ricerca, di ascolto e di sintonia.

Chiara Ciol

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