7 Dicembre 1991

Fin de siècle

di Stefano Fugazza

Scriveva Huysmans nel suo romanzo Là-bas, uscito giusto cent'anni fa, nel 1891: «Le fini di secolo si somigliano. Tutte vacillano e sono confuse». Forse non è un caso se la nostra epoca, che pure si avvia alla fine di secolo (e del secondo millennio), esibisce con la fin de siècle storica delle spontanee affinità. Non è difficile riconoscerle, una sopra le altre: l'incrociarsi, il rincorrersi, il sovrapporsi dei linguaggi. È uno stato di cose che verifichiamo ogni giorno, nelle arti come nei media.

Anche le litografie de «L'Estampe moderne» — mensile glorioso che si compiacque di una vita effimera, dal maggio 1897 all'aprile 1899 — riflettono una varietà di stili e di tendenze che può, a tutta prima, disorientare. Ma erano, quelli, anni fecondi, in cui sopravvivenze naturalistiche e gli ultimi bagliori del Simbolismo si intrecciavano con le audacie dell'Art Nouveau. Tutto ciò avveniva a Parigi, non perché la ville lumière fosse l'unica capitale delle arti (altre esperienze decisive andavano maturando nelle province, nelle periferie), ma perché lì accorrevano tutti, abbagliati dal mito di una città-spettacolo, pronti a disputare tra i due poli della Tradizione e del Moderno.

«L'Estampe moderne», ecletticamente aperta ad artisti francesi e stranieri, non poteva che registrare questa condizione di ricerca in atto, questo frenetico lavorìo. Troviamo così, da una parte, solo per fare qualche esempio, una giovane di Christiansen intenta a cogliere fiori maligni, ancora baudelairiani (ma, nonostante il corpo nudo, gli occhi chiusi, il bosco nero del fondo, la donna s'inoltra nella palude senza il gusto del torbido), oppure la Salomé di Mucha, col busto gettato indietro, nella danza, emergente dalle lumeggiature del fondo, o un'altra Salomé di Merson, moderatamente preraffaellita, o un volto diafano che Aman Jean, a mezzo di un tratteggio fitto e circolare, confonde con i fiori che lo attorniano.

Dall'altra parte ci vengono incontro una cavallerizza di Ranft, occasione per un superbo contrasto di bianco e di nero, o la parigina di Evenepoel che, in prestito da un affiche, trascinando una bambina, sta quasi uscendo dal contorno della stampa o i minatori di Besson, resi con un tratto rude e marcato, forse a disagio in mezzo a tanta muliebre bellezza.

Come non sono omogenei i mezzi espressivi, così è contraddittoria l'immagine della donna celebrata da questi artisti. Essa non è più la Belle-Dame-Sans-Merci, la sfinge ai cui piedi si ammonticchiano corpi di agonizzanti, anche se può essere ancora una creatura che cede all'ebbrezza, una fata un po' enigmatica, una sacerdotessa d'oriente. Ma è anche, come in Bellery-Desfontaines, un essere nuovo, che guarda negli occhi il suo uomo, abbracciandolo alle pari.

Relativamente nuova è anche l'idea di accostare all'arte, con la litografia, un maggior numero di persone (ma poi il lusso della raffinata rivista smentisce un poco il democratico assunto). Dialettica tra il popolare e il prezioso, tra gli happy few e i molti: un'altra analogia con il nostro tempo.

Stefano Fugazza, dicembre 1991

Il testo è stato pubblicato in occasione della mostra L'Estampe Moderne (1897-1899), Galleria dell'Incisione, Brescia 2016

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