14 Agosto 2004
di Franco Fanelli
“C’era il giovane Nat Swaine che era un tempo il capo-lancia più coraggioso di tutta Nantucket e del Vigneto; è entrato in conventicola e non è mai più stato lui. Era tanto spaventato per quella sua anima dannata, che dava indietro scostandosi dalle balene per paura di novità nell’altro mondo, in caso che lo sfondassero e lo spedissero a Davy Jones”
H. Melville, Moby Dick, nella traduzione di C. Pavese
“La sua ombra incombeva sulla nave. Invulnerabile per, la promessa del suo rapido disfacimento, calpestava il nostro amor proprio e quotidianamente ci rinfacciava la nostra mancanza di coraggio morale. Corrompeva le nostre vite. Se fossimo stati un miserabile branco di immortali maledetti, condannati a ignorare sia la speranza che il timore, non avrebbe potuto dominarci con una affermazione più spietata del suo sublime privilegio”
J. Conrad, Il negro del Narcissus
Alle ipocrite asserzioni della correttezza politica ho sempre preferito la complessità (e sì, anche l’ambiguità) della letteratura. Così la figura del negro, che nel mio lavoro fa la sua prima apparizione nella seconda metà degli anni Ottanta, si deve a suggestioni melvilliane, al demone marino Davy Jones citato in un dialogo tra Peleg e Bildad, due capitani del “Pequod”; ma ancora più determinante fu l’influsso di alcuni racconti di H.P. Lovecraft. Mi parve di individuare nella
morfologia del “pantheon nero” evocato dal Lovecraft un’affascinante ibridazione tra una figura ricorrente nell’iconografia mitologica, il tritone antropomorfo, e certe ossessioni anglosassoni, tra gotico americano (la nostalgia di un passato mai conosciuto che però, spesso, si manifesta come indesiderata presenza) e latente xenofobia.(1) La fisionomia negroide di quei personaggi (a Brescia ne sono esposti quattro esemplari datati tra il 1985 e il 1989) doveva rimarcare, con l’inserimento di un elemento desueto per l’iconografia classica, l’osmosi, non sempre desiderabile, narrata da Lovecraft nel ciclo di “Chtulhu”: padri saturnini che ritornano dalle più oscure e remote cavità della storia preumana, illeciti patti stretti dagli umani con quelle creature marine che, puntualmente, esigono il loro diritto di risorgere e di coabitare con gli umani sulle coste del New England. (2) Da un punto di vista tecnico, quelle incisioni mi fornirono l’opportunità di applicare alla figura umana quanto andavo ricercando in alcune piccole prove sul paesaggio fantastico: la convivenza tra segno acquafortistico e materia, tra meccanicità del tracciato della rotella e il senso di organicità che cercavo di attribuire a “paesaggi in rovina” (Anna Mariani, in un suo bel testo del 1986) o a immaginarie vedute da Tsalal, l’isola nera che costituisce la penultima tappa del viaggio del Gordon Pym di Edgar Allan Poe, la nigredo prima dell’albedo che conclude (anzi riapre) il libro. Inoltre, soprattutto l’elemento zoomorfo di quelle figure mi consentiva di mettere a punto, tramite l’utilizzo di speciali textures sulla vernice molle, alcune soluzioni per dare fisicità alle epidermidi.I miei primi ritratti reali o immaginari di afroamericani risalgono al 1992-93, con una serie di dipinti a olio. Reali erano alcuni modelli desunti dal mondo del pugilato, del rugby, del wrestling e della musica hip-hop; immaginarie (o in qualche modo eroiche) erano le fisionomie che quei modelli assumevano una volta ritratti. Ma, ancora, più della “narrazione” era l’”evocazione” il movente di quelle opere, seguite da un’acquaforte del 1998, che apre la galleria di ritratti di questa mostra bresciana: l’idea era di delineare una fisionomia come fosse un’impronta digitale; i segni dovevano costituire una geografia del volto. Il protagonista di quell’opera sarebbe riapparso in molte incisioni successive, sino alle più recenti. Si tratta di Tom Corbin, timoniere della scialuppa del giovane capitano Edgar Byrne nel racconto La locanda delle streghe di Joseph Conrad. Per l’inesperto Byrne, Tom Corbin, o “Cuba Tom” è maestro, consigliere, forse anche modello; nel più misogino dei racconti di Conrad, rappresenta anche la lealtà virile, la fratellanza maschile in un rapporto di latente omosessualità. (3) Alla fine sarà anche il martire che, col suo sacrificio, consente alla nave di proseguire il viaggio. Tom Corbin, eroe positivo, è il contraltare del Negro del Narcissus che, in un altro e più noto racconto conradiano, è individuato come portatore di sventura a bordo di un più tormentato veliero.
Se Corbin è il compagno di strada capace di indicare la giusta rotta, il negro del Narcissus è il diverso (4), colui che, complice la superstizione altrui, può portare alla perdizione. Così, Tom Corbin e Narcissus sono diventati i due personaggi-chiave delle mie incisioni negli ultimi sette anni, i due volti di una diversità. Tra questi due estremi, tra due eroismi diversi, si collocano tre incisioni intagliate fra il 2001 e il 2003: sono gli “Uomini d’arme” immaginati secondo l’iconografia cinquecentesca (e l’esangue eppure fascinosa atmosfera della “pittura senza tempo” manierista) e però, ancora, caratterizzati da un elemento desueto, la pelle nera, appunto, tramite il quale mi è piaciuto ricollegarmi a un altro contraddittorio eroe della letteratura, l’Otello di Shakespeare: ancora una volta, a indossare la gorgiera di Otello sono stati anonimi modelli o eroi dello sport o dello spettacolo. Nei “Tom Corbin”, nei “Narcissus” e ancora negli “Uomini d’arme”, l’osservatore più paziente riscontrerà una progressiva messa a fuoco della fisicità di sguardi ed epidermidi, complice un sempre più insistito ricorso alla trama segnica dell’acquaforte o alla trama nascosta della maniera nera: in entrambe le tecniche è decisivo l’intervento del raschietto e del brunitoio, lo strumento che sulla lastra modella i segni e le trame e con quelle la plasticità dell’immagine; in effetti, ho sempre cercato di rivendicare l’ascendenza scultorea delle tecniche incisorie, una parentela che conferisce ai procedimenti calcografici eccezionali potenzialità proprio in termini di presenza fisica dell’immagine tramite il microrilievo ottenuto in stampa (le incisioni, infatti, si dovrebbero toccare). I “gemellaggi”, le fisionomie che ritornano in diverse tecniche fra le opere in mostra, si devono infine alla necessità di indagare e interrogare con diversi linguaggi lo stesso personaggio. In genere, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, è l’incisione che precede l’acquerello, con quest’ultimo a costituire uno studio a posteriori di quanto emerso tra matrice e foglio.
Non mi sarebbe stato possibile esporre, come da tempo desideravo, la serie dei “neri” senza il complice e coraggioso sostegno della Galleria dell’Incisione di Brescia, che desidero qui ringraziare insieme a tutte le altre persone (tra le quali Alice Fiorilli, fotografa) che in questi anni mi hanno chiesto “perché tanti negri?” soltanto per sapere qualcosa in più su di loro e non sulla monomania dell’autore; sono, come ho scritto, fortemente e credo colpevolmente debitorio nei confronti di Hermann Melville, Edgar Allan Poe, Joseph Conrad e Howard Phillips Lovecraft. Dal romanzo Il rumore sordo della battaglia (Mondadori) di Antonio Scurati ho “sfilato” un nome, “Malacarne”, che dà il titolo ai ritratti degli “Uomini d’arme”. Sono numerosi i modelli cui ho cercato di rubare qualcosa: i pugili Chris Eubank, Thomas Hearns e Marvin “Marvellous” Hagler, il lottatore George “Tiger” Chandler, i rappers Elzhi and T3, Nelly, Dino Brave e Ministère Amer, e tanti altri che hanno un nome soltanto per me e pochi altri. Comunque tutti, artisti, scrittori e modelli, a loro volta non meno “colpevoli” di Chiara Fasser.
Franco Fanelli, agosto 2004
Raccomandabile per chi ancora s’interrogasse sulle “gerarchia” dei generi letterari il saggio di Giorgio Manganelli La città blasfema, in La letteratura come menzogna, Adelphi, 1985.
Viola Sachs, storica della letteratura americana e raffinata ermeneuta del Moby Dick, ha identificato uno dei “Davy Jones” con la monumentale tragicità della “cariatide” attribuita da Melville al capitano Achab.
In verità, non c’è parte del racconto di Conrad che lasci presumere con certezza la provenienza etnica di Tom Corbin, caratterizzato caso mai dal “più bel codino che si sia mai visto nella Marina”, ornamento che il marinaio porta avvolto in una pelle di cetaceo. A parziale scusante per la mia licenza poetica, vorrei dire che, più della incerta negritudine di Cuba Tom contava per me la nigredo della sua ultima epifania.
Echi del “Narcissus” hanno raggiunto anche la letteratura contemporanea nel romanzo di Peter Blauner Il nero dell’arcobaleno.
Il testo è pubblicato in Franco Fanelli. L'ospite segreto, Galleria dell’Incisione, catalogo della mostra, Brescia 2004