13 Novembre 1988

Giuseppe Bergomi (Presentazione)

di Marisa Volpi

La scultura ha subito negli ultimi cento anni traumi più drammatici di quelli subiti dalla pittura: per la sua propria natura tridimensionale, essa è facilmente avvolgibile da secoli di patina idealizzante, impercepibile dunque dall’occhio contemporaneo.

L’ironia dechirichiana sulle statue, posticce come ogni altro elemento delle sue Piazze metafisiche, non si proponeva certo di liberare la scultura di un'incombenza monumentale, la cui convenzionalità può opprimere la poesia della visione. Dunque le nostre ansie nei confron­ti dell’arte, del suo obbligato rapporto con il respiro della vita, hanno scoperto, soprattutto ai primi del secolo, nella scultura un obiettivo polemico privilegiato.

Le avanguardie storiche ne hanno formulato una riduzione simbolica drastica, e l’hanno posta in più stretto rapporto con il linguaggio dell’architettura. Gran parte degli scultori mo­derni astratti hanno desunto motivazioni costruttiviste dalle fonti cubiste e futuriste, che in ultima analisi derivavano dall’opera di Paul Cézanne e di Hans Yon Marées.

Ma mentre Cézanne e Marées offrivano il destro alle astrazioni razionaliste del cubismo, del Bauhaus e così via, insinuavano anche fertili motivi di riflessione profonda alla semplifi­cazione plastica della scultura del Novecento europeo e americano. Pregnanza significativa contro decorazione agiografica, forza plastica contro celebrazione e barocchismo.

Giuseppe Bergomi è un giovanissimo pittore quando, nel 1980, nel visitare la mostra «Le Realisme» al Centro Pompidou è colpito profondamente dalle opere di Otto Gutfreund, un ar­tista cecoslovacco degli anni Venti-Trenta che gli rivela la sua vocazione di scultore con un occhio che coglie, come egli dice, la concentrazione e la stabilità dell’effimero.

Sarebbe facile parlare per Otto Gutfreund di Nuova Oggettività: io credo che Bergomi ab­bia colto in quelle dense presenze una affinità di mondo e di espressione e che una polarità così europea lo abbia tenuto avvinto anche nei momenti in cui è stato suggestionato da certe opere dell’americano George Segal.

In Segal la presenza del corpo umano è data dai calchi bianchi allusivi alle maschere mortuarie, calchi inseriti in modo vario ma statico in uno spazio veramente vuoto, o reso artificialmente vuoto dalla combinazione di quelle orme bianche tridimensionali dell’uomo quotidiano con tavoli da caffè, cabine telefoniche, scritte luminose e altri reperti reali, non trasfigurati, del vocabolario di una qualunque città, o strada, o interno, americani.

Ma le figure solitarie di Giuseppe Bergomi, scultore eminentemente europeo, non potevano accontentarsi di quella secca operazione di prelievo, quasi una dichiarazione di anonimato sociale, che parla della delusione ideologica americana dell’epoca della pop-art, nel caso di Se­gal immersa in una forte atmosfera di tedium giudaicum.

Chi guardi con occhio innocente — cioè appassionato e disposto a lasciarsi sedurre senza formule — le donne di Bergomi, poiché si tratta soprattutto di donne, è colpito insieme dalla estrema singolarità espressiva dei corpi, dei volti, delle pose, degli sguardi e da una rigorosissi­ma contenutezza formale del blocco plastico. L’espressività racconta delle storie, la contenu­tezza le àncora severamente al puro linguaggio plastico.

Si ricordi il blocco dal titolo «Stefania in poltrona», 1985, e in esso si notino il pigiare del­le punte dei piedi in terra, l’animato gioco delle dita delle mani, gli occhi e la bocca intensa­mente protesi a comunicare un’esistenzialità pensosa aggressiva ed interiore. Così è di «Elena assorta», 1987, o di «Nudo di Elena», sempre 1987, splendidi.

La terracotta, materiale finora preferito dall’artista forse perché toccabile, imprimibile dal colore e da numerose possibilità di intervento più per rivelare che per simulare la vitalità della materia, non impedisce mai che il taglio dei busti o l’intero delle figure o i corpi integrati agli oggetti tornino a proporci, anzi ad imporci proprio l’essenza della scultura, cioè la sintesi monumentale.

Per questo risultato uno snodo giustamente citato da Sgarbi nel 1985 è il grande Arturo Martini, che della scultura aveva capito anche la poesia, il rapporto candido, elementare e irrinunciabile della statua con lo spazio, con gli oggetti reali della vita e con l’aria, la luce, le mina, gli abiti, i colori.

Rapporto che Bergomi rinnova con occhio più astuto e più ardimentoso. Forse l’attenzione insistita per artisti del centro Europa, quali Gutfreund e Bedrich Stefan lo inclinano ad esplo­rare, pur senza diffondersi, un mondo interiore più magmatico, un linguaggio più incerto, più fremente nei particolari, che in parte richiama, nell’ostentazione accorta del colore, anche il tedesco dei primi del secolo, Max Klinger. Del resto le fonti visive che Sgarbi ha ricordato in un bel dialogo immaginario tra Agesia e Psaumide (in cui Bergomi è Psaumide), l’Auriga di Delfi e Verrocchio, non possono essere più appropriate per eccitare la nostra lettura delle opere dello scultore bresciano. Sculture severe ma ammiccanti l'occhio verso particolarità emozio­nanti per perspicuità irripetibili: un panneggio, una vena, un arricciarsi di capelli.

Dunque fermiamoci davanti ad alcune di esse: «Beatrice nuda», «Donne al sole», le ba­gnanti sedute con la calotta in capo, «Rita in piedi». È vero: un'idea metafisica è applicata al quotidiano, sono parole dell'artista. Ma il risultato è straordinario quando la semplicità di peso e tensioni si integrano totalmente alla suggestione del suo occhio incantato, come nel caso del «Nudo al sole» o di «Nudo seduto». Sembra che la perentorietà della figura stessa obblighi l'artista a non divagare.

E ciò non vuol dire rinuncia e astrazione volontaria, anzi, mai, nel presentarsi grandioso e controllato di ogni sua opera ai nostri occhi, Bergomi tralascia di farci sentire una pungente, amara, attraente immediatezza della fisicità che connota la vita del corpo: basterebbe guardare i capelli, la loro massa singolare, il loro disporsi in contrasto e in accordo con il volto, l'abi­to, lo sguardo della «Grande testa» di bronzo.

Dirò che se pure la parola metafisica è giusta ad individuare il silenzio e la formalità solenne di questa quotidianità, colta con occhio sapiente e talento eccezionale nell'individuazio­ne peculiare di un gesto, di un volto, di uno sguardo, io sono stata emozionata guardando l'opera di Bergomi nel ritrovare il senso di formulazioni di pensiero così importanti per l'arte moderna come 'pura visibilità' 'valori tattili'.

Da Fiedler a Berenson a che cosa intendevano far segno questi teorici, questi studiosi dell'arte del passato?

Forse ad un bisogno di disvelamento, un esito di apparente impromptu che colpisce i sensi rapinando il cuore o l'anima per la singolarità irripetibile di un vissuto che aspira a non perdersi. Nelle sculture di Bergomi ci tira per così dire a forza con un «Voltati, guardami, tocca­mi, ricordami». L'artista dotato di una eredità formale inequivocabile, di cui si sono citati gli snodi, riesce a far sentire l'appello di ciò che prima di noi ha chiamato lui e che egli intende trasmetterci ambiziosamente integrale, proprio come lui l'ha sentito tradursi in immagine pla­stica.

Marisa Volpi, 1988

Il testo è pubblicato in Giuseppe Bergomi, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 1988

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