20 Aprile 1979
di Bruno Passamani
Credo che per cercar di capire il senso del lavoro attuale di Gallizioli sia utile ricordare la sua pittura e forse ancor più i suoi disegni degli esordi e ripercorrere il processo fino agli esiti di oggi. Si è trattato di un processo di selezione, chiarificazione e messa a fuoco interna ed esterna attraverso il quale gli oggetti che già popolavano in brulichìo microcosmico gli universi segnici di questo interessante artista, si sono trasformati acquisendo dimensioni e spessori -intendo anche a livello linguistico - macrocospici. Quelli che denotavano l'indistinto, l'imprecisato esistenziale quotidiano, eccoli assurgere a segni perentori, a materiali di organizzata metafora.
E quella caparbietà grafica che nel rigore e nella diligenza del segno aspirava a restituire, a volte persino con raccapricciante lucidità, gli accenti, i corrugamenti o le unità cellulari del fluire, rieccola più ostinata che mai a definire oggettualità, peso, connotazione specifica delle immagini o dei simboli. Dall'informe alla forma, dall'indistinto all'uno: l'occhio di Gallizioli ha ristretto progressivamente il suo campo visivo, ma per un effetto "forbice" l'area di sondaggio e di giudizio si è andata facendo più aperta e categoriale. Questa messa a fuoco è stata dunque solo apparentemente riduttiva del campo: in realtà vi ha corrisposto un progressivo precisarsi delle immagini sullo schermo della coscienza, il loro passare da uno stadio di spontaneità, di germinazione quasi automatica, ad un momento di organizzazione critica, di selezione. Insomma, Gallizioli ha trasformato e rielaborato la propria potenzialità fantastica e le induzioni culturali e del gusto fino a giungere alla costituzione di "materiali poetici", tipicamente suoi, inconfondibili. Con essi viene formando quelle costruzioni figurali che taluno definisce simboliste, mentre per altri hanno più del surreale. In sostanza tutto può ridursi a tre elementi: l'animale, la macchina, il contesto spazio-temporale.
Gabbiano, coniglio, tasso, topo: restituiti con lucido verismo, proprio per questo ci appaiono privi di ogni espressione estranea alla loro pura animalità.
Per macchina dobbiamo intendere sia i più semplici e apparentemente innocui congegni metallici tubolari dotati di gomiti, "periscopi", maniche, comignoli e rappresentati come aeromobili, sia le più recenti strutture "a terra", come altiforni, ciminiere, torri di cementifici. Queste forme metalliche o cementizie, indipendentemente dal grado di probabilità o di verosimiglianza, appaiono realizzate con lo stesso scrupolo oggettuale che caratterizza gli animali.
Il rapporto fra queste due categorie di "esistenti" è di tipo onirico e sadico: onirico, perché solo nelle stralunate dimensioni del sogno un coniglio può affacciarsi da una sorta di bombola di gas liquido navigante nello spazio; sadico perché sempre si realizza una situazione di compressione dell'animale o quanto meno di sradicamento dal suo habitat. Ora, il grado di accensione sadica appare tanto più intenso quanto più docilmente inespressivo (incosciente) risulta l'animale.
Quest'inespressività, questo offrirsi inconsapevole alla tortura e la conseguente asettica cristallinità formale dei dipinti, la loro dimensione spazio-temporale da sogno (ma potrei anche dire la normalità dell'assurdo, la medesima che ci tocca di questi tempi sperimentare, qui proiettata in un silenzio di pietra), ci portano ad accostare i dipinti di Gallizioli a quel repertorio di orrori sadici che è il "Salò" di Pasolini.
Anche Gallizioli è portato a costituire un repertorio, a catalogare con ossessivo spirito analitico le varie figure ed i vari "topoi" della follia. Lo stesso stile dei suoi dipinti mi sembra in un certo senso riflettere certi schemi di sequenza e di ritmica propri dell'attività catalogatoria: la rispondenza a simmetrie verticali ed orizzontali nella costruzione dei dipinti e nella disposizione delle immagini, l'impianto prospettico, certa araldicità o assialità, ricorso a schemi codificati di segni per rendere rispettivamente onde, nubi, superfici di metalli ecc. Ed ora, nelle opere ultime, la follia ha lasciato i cieli o le spiagge della latitudine inconoscibile per calare sulla terra, proprio quella dei prati e delle selve che ci appartiene. Alita dunque sempre più vicina.
Dopo queste considerazioni credo che non ci voglia molto per dichiarare quanto sia, non solo riduttivo, ma addirittura fuorviante il riferimento alla preoccupazione ecologica come molla fra le decisive per questa pittura. Anche se il reattore a Harrisburg sembra prefigurato da Gallizioli, ci vuol ben altro che un'indignazione da ecologo per alimentare la sua creatività. Se mi guardo in giro riesco a vedere solo un altro caso in cui, fatte le debite distinzioni per la specificità delle relative esperienze e dei linguaggi, l'animale sia fatto sistematicamente oggetto della follia sadica con esibizione di strampalati e allucinanti marchingegni da far invidia alle invenzioni di Edgar Allan Poe: Valeriano Trubbiani.
Non interessa stabilire i diversi gradi di ossessione formale e quelli della metafora, come anche i possibili spiragli: l'accostamento ci serve per indicare come alla coscienza dell'arte contemporanea la violenza si imponga, al di là dei facili riferimenti con la realtà immediata e contingente, come una delle dimensioni del vivere, del pensare, del filosofare o del realizzare la propria virtuale artisticità. Così ferire, comprimere, violentare, "spaesare" anche - secondo il fondamentale procedimento metafisico-surreale (che però a questo punto si carica di significati e valori nuovi, come nel cinema avviene passando, che so, da Léger a Buñuel) - diventano area operativa e di ricerca poetica, ove non dico che l'artista si muova indifferentemente, ma dove egli testimonia quotidianamente il proprio essere "dentro" la vita.
Bruno Passamani, aprile 1979