11 Dicembre 1998
di H. D. Smith
Le vedute
Nonostante l’aspetto ameno e apparentemente descrittivo delle vedute, l’intento di Hokusai è di rappresentare l’immortalità del monte Fuji, il suo profondo e tradizionale valore di montagna sacra, tanto sacra da far nascere comunità monastiche e da ispirare asceti legati al rito della sua ascesa.
Non solo la montagna è particolarmente significativa, ma anche il numero e il momento della vita in cui Hokusai compone questa raccolta è importante se la nuova firma “Manji” (immagine delle dieci migliaia, cioè cento volte cento) è seguita dalla famosa dichiarazione:
“Fin dall’età di sei anni ho avuto un’inclinazione a copiare la forma delle cose, da quando ho superato i cinquant’anni le mie opere sono state pubblicate spesso; ma fino ai settant’anni nessun mio disegno era degno di nota.
A settantatré anni sono stato in grado di penetrare la crescita di piante e alberi, e la struttura di uccelli, animali, insetti; pesci.
Quando avrò raggiunto gli ottant’anni spero di aver fatto notevoli progressi, a novanta di vedere più in là nel sottolineare i principi delle cose, a cento di aver raggiunto uno stato divino nella mia arte e che a centodieci ogni punto e ogni tocco siano come vivi.”
Persino una delle etimologie popolari del nome del monte lo lega al concetto di immortalità, facendolo risalire a fu-shi, cioè “senza morte”. Sulla sua cima, secondo antiche tradizioni già indiane e cinesi, si sarebbe trovato un elisir di immortalità, essendo una delle tre Montagne degli Immortali. Il legame ossessivo con il numero cento in Hokusai si riferisce sia alle opere, sia all’obiettivo in termini di età che egli si proponeva di raggiungere: l’artista era convinto che solo a cento anni sarebbe arrivato ad uno stato divino nella propria arte e sarebbe entrato nel novero degli Immortali della Pittura.
La grandezza di queste vedute però sta nella loro simbologia immaginativa intrinseca, più che in quella numerologica e formale. La rappresentazione così variata e tremendamente immaginosa dello stesso soggetto, con ben pochi appigli ad una realtà ritratta, distingue quest’opera dalle precedenti di Hokusai stesso e soprattutto da quelle di autori contemporanei alla moda, che con il loro foglio cercavano i luoghi classici da cui “ritrarre una suggestiva fotografia” del paesaggio. I paesaggi di Hokusai sono interiori, sono elaborazioni delle percezioni visive dell’artista: egli stesso li definisce “eccentrici” e “non ortodossi”.
L’osservazione attenta e il confronto con i luoghi reali mostrano che Hokusai non “ritrae” i paesaggi, bensì li rigenera con l’immaginazione, ricompone le sensazioni suscitategli dal paesaggio; ventisei titoli si riferiscono a luoghi precisi, eppure il riconoscimento risulta difficoltoso. I pochi schizzi preliminari sopravvissuti non hanno per nulla l’aria di essere stati disegnati sul posto; Hokusai lavorava in una minuscola casa, in una vietta nel centro di Edo.
Questa rigenerazione del paesaggio lo porta fino al limite dell’identificazione del monte con la figura umana, o addirittura - come sostiene uno studioso - alla “oromorfizzazione” dei corpi (n° 60 e 70), nell’arco della schiena, nella chiusura delle membra, nei gesti delle mani.
Altri sapienti giochi di immagini ruotano intorno al tema del riflesso, in cui entra in gioco anche l’elemento acquatico del lago sottostante il Fuji, oppure uno specchio. Il lago assorbe in sé una simbologia molto importante se associata al lago nell’antico libro oracolare de “I Ching” cinesi, ed amplia ulteriormente la portata semantica del tema principale.
Il libro
I critici e gli esperti sono d’accordo nel considerare quest’opera il capolavoro di Hokusai, benché meno nota delle Trentasei vedute del Fuji, che la precedettero da vicino. La maggior fama delle Trentasei vedute è comprensibile, perché si tratta di grandi fogli singoli stampati a colori, mentre le Cento sono piccole xilografie riunite in un libro e stampate in nero e grigio, che per di più raggiunsero lo statuto di capolavoro solo nell’edizione originale e sono state invece conosciute e diffuse in stati tardi stampati rozzamente.
L’organizzazione dell’opera in un libro dà alla serie un senso di interezza, una complessità e un’inequivocabile sequenza ai fogli, che noi occidentali dobbiamo ricordare di leggere da destra. In questo spesso aiuta la collocazione del Monte Fuji sulla metà destra, che attrae lo sguardo verso la corretta visione.
L’opera è costituita da 102 xilografie riunite in tre volumi, pubblicati per la prima volta nel 1834-35 (I e II volume) e negli anni ‘40 (III volume). Secondo la tradizione giapponese, si compone di pagine stampate da lastre di legno; ogni foglio è piegato a metà e rilegato lungo il profilo esterno (quello non piegato) con un cordoncino di seta. Ogni volume è formato da 27 fogli, tranne il III, a cui manca la pagina finale del colophon (cosa che rende difficile l’esatta datazione).
La colonna centrale lungo cui è piegato ogni foglio è chiamata “pilastro” (hashira) e consiste in un disegnino del Fuji seguito dal titolo del libro e dal numero del volume - in basso da una linea divisoria e dal numero dalla pagina. Quando la pagina viene piegata, questa sequenza viene perfettamente divisa in due metà e lascia una traccia leggibile su entrambe le facce, un abile monito alla continuità anche fisica tra le due parti: dunque per vedere interamente il “pilastro” bisogna girare la pagina.
Ciò che rende speciale l’edizione originale è la sapienza con cui sono dosate le gradazioni di grigio, che si contrappongono alle linee nette del nero: per ogni veduta furono usati, oltre al legno-chiave inchiostrato in nero, uno o due legni per il grigio; inoltre per il n° 36 e il n° 52 fu aggiunto un altro legno in nero per ottenere effetti particolari. Spesso le sfumature di chiari e scuri sono ottenute con l’asciugatura del colore sui blocchi, oltre che col colore diverso. Il III volume fa eccezione anche sotto questo aspetto.
L’autore
Hokusai (Edo 1760-1849) è uno dei più celebrati artisti giapponesi di tutti i tempi. Si accostò alla professione a soli quattordici anni, come apprendista incisore, e presto si orientò verso la tecnica del disegno. Fu sempre un cercatore, uno sperimentatore, un artista cangiante: passò dalle stampe di fogli singoli colorati, a stampe private (surimono), a libri di pittura, a manuali didattici per il disegno, a illustrazioni per storie popolari.
A 50-60 anni il suo seguito gli proveniva soprattutto dalle ultime due categorie, ma la fama durevole la meritò e la merita con le opere dei 70 anni, a partire dalle Trentasei vedute del Fuji fino al capolavoro delle Cento.
Da H. D. Smith, Hokusai, One Hundred Views of Mount Fuji, Thames & Hudson, London 1988