20 Gennaio 2005

Il Giapponismo in Europa all’alba del Novecento: un sondaggio proustiano

di Vincenzo Farinella

In una pagina del primo volume di Alla ricerca del tempo perduto (Dalla parte di Swann, pubblicato a Parigi il 14 novembre 1913), la descrizione della palazzina di rue La Pérouse, dietro l’Arco di Trionfo, residenza di Odette de Crécy, la piccola provinciale, la semplice Odette, la “personcina” dalla bellezza troppo banale (non abbastanza volgare, avrebbe detto Swann) per poterlo mai affascinare, consente a Marcel Proust di stendere un consuntivo di quel cattivo gusto orientale, dove gli ultimi cascami della morente cineseria si erano congiunti con i recenti arrivi della nuova moda giapponese - non dimentichiamo che Un amore di Swann è ambientato intorno al momento della nascita del narratore, e quindi in un passato lontano qualche decennio dalla data di pubblicazione del romanzo -, che a partire dagli anni settanta dell’Ottocento aveva invaso le case dell’alta e media borghesia parigina, abbandonando gli studi e gli ateliers dei letterati e degli artisti d’avanguardia:

“Lasciando sulla sinistra, al piano rialzato, la camera da letto di Odette che si affacciava, dietro, su una stradina parallela, una scala dritta, fra pareti dipinte di una tonalità scura lungo le quali scendevano stoffe orientali, fili di rosari turchi e una grande lanterna giapponese sospesa a un cordoncino di seta (ma che, per non privare i visitatori degli ultimi conforts della civiltà occidentale, si accendeva a gas), conduceva al salotto e al salottino. Questi erano preceduti da uno stretto vestibolo alla cui parete, rivestita da un graticcio da giardino, ma dorato, era addossata per tutta la sua lunghezza una cassa rettangolare nella quale, come in una serra, fioriva un filare di quei grossi crisantemi ancora rari in quegli anni, sebbene non paragonabili alle qualità che gli orticoltori riuscirono ad ottenere in seguito. Swann era infastidito dalla moda di cui erano oggetto dall’anno precedente, ma questa volta lo aveva colpito piacevolmente vedere la penombra della stanza screziarsi di rosa, arancione e bianco grazie ai raggi odorosi di quegli effimeri astri che s’accendono nelle giornate grigie. Odette l’aveva ricevuto in vestaglia di seta rosa, con il collo e le braccia nudi. L’aveva fatto sedere accanto a lei in uno dei molti misteriosi ricettacoli ricavati nelle insenature del salotto, protetti da immense palme dentro portavasi di Cina o da paraventi ai quali erano appuntati dei nastri intrecciati, dei ventagli, delle fotografie. Gli aveva detto: “Ma così non siete comodo, aspettate, vi sistemo io per bene”, e con il piccolo riso vanitoso di chi esibisce una sua speciale invenzione aveva sistemato dietro la testa e sotto i piedi di Swann una quantità di cuscini di seta giapponese, schiacciandoli come fosse prodiga di tali ricchezze e noncurante del loro valore. Ma quando il cameriere era venuto a portare una dopo l’altra le numerose lampade che, racchiuse quasi tutte in vasi di porcellana cinese, ardevano isolate o a coppie, disposte su vari mobili come su altari, e avevano fatto riapparire nel crepuscolo già quasi notturno di quel tardo pomeriggio d’inverno un tramonto più durevole, umano e rosato – persuadendo forse qualche innamorato a indugiare sognante nella strada davanti al mistero della presenza che le finestre accese svelavano e nascondevano a un tempo -, lei, con la coda dell’occhio, aveva severamente sorvegliato il domestico per verificare che le posasse con esattezza al loro posto consacrato. Temeva che mettendone anche una sola in posizione sbagliata l’effetto d’insieme del suo salotto andasse dissolto e che il suo ritratto, sistemato su un cavalletto obliquo drappeggiato di peluche, non fruisse più della luce giusta. […] Trovava che i suoi soprammobili cinesi avessero tutti delle forme “divertenti”, e anche le orchidee, le cattleya soprattutto, che erano con i crisantemi i suoi fiori preferiti perché avevano il grande merito di non assomigliare a dei fiori ma d’essere di seta, di raso. “Quella si direbbe ritagliata nella fodera del mio mantello”, disse a Swann mostrandogli una certa orchidea, con una sfumatura d’ammirazione per quel fiore così “chic”, per quella sorella elegante e imprevista che la natura le offriva, così lontana da lei nella scala degli esseri e tuttavia raffinata, più degna di chissà quante donne d’avere un posto nel suo salotto. Mostrandogli, via via, delle chimere dalle lingue di fuoco dipinte su un vaso di porcellana o ricamate su un parafuoco, le corolle di un fascio di orchidee, un dromedario d’argento niellato, con gli occhi di rubini, che stava sul camino accanto a un rospetto di giada, Odette affettava volta a volta di aver timore della malvagità o di sorridere dell’aspetto stravagante dei mostri, di arrossire dell’indecenza dei fiori e di provare un irresistibile desiderio di baciare il dromedario e il rospo, che chiamava “amorini”.”

Le glorie effimere e il rapido tramonto, negli ultimi anni del secolo, di questo pervasivo gusto orientale, che da Parigi aveva invaso tutte le capitali europee, ricompaiono in una pagina di All’ombra delle fanciulle in fiore (1918), dove il salotto sempre più provinciale e fuori moda di Odette, divenuta ormai Madame Swann, ma senza abbandonare le sue abitudini da demi-mondaine, tenta faticosamente di aggiornarsi su nuove manie collezionistiche, come la passione per le arti decorative del Settecento, lanciata dagli scritti dei fratelli Goncourt:

“Se, al momento di congedarmi da Madame Swann, finito il suo “tè”, io pensavo a quel che avrei scritto a sua figlia, Madame Cottard aveva avuto, andandosene, pensieri di tutt’altra natura. Nel corso della sua “piccola ispezione”, s’era puntualmente rallegrata con Madame Swann per i mobili nuovi, per le recenti “acquisizioni” notate in salotto. Dove, per altro, poteva ritrovare, sebbene in minima quantità, alcuni degli oggetti che Odette esibiva un tempo nella casa di rue Lapérouse, in particolare gli animali di materie preziose: i suoi amuleti.

Ma poiché un amico che lei venerava aveva rivelato a Madame Swann l’esistenza della parole “paccottiglia” – che le aveva dischiuso nuovi orizzonti, giacché designava appunto le cose che, qualche anno prima, avrebbe giudicate “chic” –, tutti quegli oggetti avevano via via seguìto nel loro pensionamento il graticcio dorato che fungeva da sostegno ai crisantemi, non poche bomboniere di Giroux e la carta da lettere con la corona […]. D’altronde, nel disordine “artistico”, nell’accozzaglia da atelier di quelle stanze con le pareti dipinte ancora di colori scuri che le rendevano così radicalmente diverse dai salotti bianchi cui Madame Swann si sarebbe convertita qualche tempo dopo, l’Estremo Oriente arretrava progressivamente dinanzi all’invasione del Settecento; e i cuscini che Madame Swann, per aumentare il mio “confort”, ammucchiava e impastava dietro la mia schiena erano cosparsi di bouquets Luigi XV e non più, come una volta, di draghi cinesi. […] Raramente, adesso, Odette riceveva gli intimi in vesti da camera giapponesi, più spesso nelle sete luminose e spumeggianti di vestaglie alla Watteau delle quali, con gesto studiato, s’accarezzava sul seno la schiuma fiorita, e dentro le quali s’immergeva, s’abbandonava, si crogiolava con una tale aria di benessere, di refrigerio della pelle, e con respiri così profondi, da far pensare che le considerasse, non già decorative come cornici, ma necessarie come il tub e il footing alle esigenze della sua fisionomia e alle squisitezze della sua igiene”.

Se quindi Proust, nei primi anni del Novecento, dimostra di provare, per quel Giapponismo che ancora trionfava al tempo della sua infanzia ed adolescenza, una sorta di fastidio, quasi di repulsione, come di fronte ad una moda ormai irrimediabilmente trascorsa e quindi scivolata, per chi non se ne fosse reso conto, nel regno del cattivo gusto, un’altra pagina, affascinante, di Dalla parte di Swann, evoca allusivamente una via di salvazione per questa passione orientale che tanto aveva inciso sui destini dell’arte contemporanea: d’altronde Proust, che non disdegnava di regalare stampe giapponesi ai suoi amici più cari, di intrattenere rapporti con Siegfried Bing, il più importante mercante d’arte dell’Estremo Oriente a fine Ottocento e il fondatore di una rivista interamente dedicata alla causa del Giapponismo (“Le Japon Artistique”, a partire dal maggio 1888), di paragonare la sintesi bidimensionale presente nei dipinti giapponesi con quella apprezzabile in certi sfondi di Raffaello, era ben conscio dell’importanza assunta dal Giapponismo nel confermare la scelta di alcuni grandi pittori, impressionisti e non (Manet, Whistler, Tissot, Monet, Degas, De Nittis…), verso un decisivo rinnovamento del linguaggio pittorico a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento, come dimostrano anche i brani dove viene rievocata una lunga fase stilistica del percorso di Elstir, l’artista proustiano che riassume nella sua persona molti dei nomi precedentemente citati (“tutta la tradizione della pittura moderna si concentra in lui, da Turner a Monet”), il “grande pittore” che “aveva subito l’influsso del Giappone”.

Si trattava di una via più segreta, lontana dagli attardati retaggi delle più trite “giapponeserie”, capace di cogliere nell’arte e nel mondo giapponese un sogno di purezza e di semplicità, una fuga dal mondo e dalle tradizioni dell’Occidente, un ponte lanciato verso il nuovo che tutto sembrava travolgere, nella sua avanzata rapinosa e iconoclasta. Il passo che ci interessa, con la descrizione di un giardino acquatico che, pur affondando nei ricordi d’infanzia dello scrittore, non può prescindere dall’emozione provata da Proust venendo a conoscenza del famoso giardino giapponese allestito da Claude Monet a Giverny, cade proprio all’inizio della Recherche, dove il narratore rievoca le passeggiate che, da bambino, lo portavano nei dintorni di Combray, “dalla parte di Méséglise” e “dalla parte di Guermantes”; è proprio in quest’ultima direzione, lungo le rive della Vivonne, che si poteva incontrare un giardino di ninfee sospese magicamente sull’acqua:

“Ma più avanti la corrente si calma, attraversa una tenuta il cui accesso era un tempo consentito al pubblico dal proprietario, che s’era dilettato d’orticoltura acquatica facendo fiorire, nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, dei veri e propri giardini di ninfee. Poiché, in quel punto, le rive erano molto boscose, le grandi ombre degli alberi davano all’acqua un fondo che appariva perlopiù verde cupo ma che a volte, rincasando in certe sere rasserenate dopo un temporale pomeridiano, ho visto d’un azzurro tenue e crudo, che sconfinava nel viola, rifinito come uno smalto e di gusto giapponese. Qua e là, sulla superficie, un fiore di ninfea dai bordi bianchi e dal cuore scarlatto rosseggiava come una fragola. Più oltre, i fiori erano più numerosi e più pallidi, meno lisci, più granulosi, più pieghettati e disposti dal caso in volute così eleganti che sembrava di veder galleggiare alla deriva, come nello sfogliarsi malinconico di una festa galante, delle ghirlande sciolte di rose borraccine. Altrove, un angolo pareva riservato alle specie comuni, che mostravano il lindore bianco e roseo delle esperidi, simili a porcellane lavate con meticolosità casalinga, mentre un po’ più in là si sarebbe detto che delle viole del pensiero, strette l’una contro l’altra in una sorta di piattabanda galleggiante, fossero venute dai giardini a posare come farfalle le loro ali azzurrognole e candite sull’obliquità trasparente di quell’aiuola d’acqua; aiuola celeste, anche, giacché il colore che creava in sottofondo ai fiori era più prezioso, più commovente di quello stesso dei fiori; e sia che facesse scintillare sotto le ninfee, nel pomeriggio, il caleidoscopio di una felicità attenta, mobile e silenziosa, sia che si colmasse verso sera, come certi porti lontani, del rosa sognante del tramonto, cambiando di continuo per rimanere sempre in accordo, intorno alle corolle dalle tinte più stabili, con quel che c’è di più profondo, di più fuggevole, di più misterioso – con quel che c’è d’infinito – nell’ora, sembrava che li avesse fatti fiorire in pieno cielo”.

In questa pagina colpisce non tanto l’immaginaria evocazione del giardino di Giverny, allestito con infinita pazienza e devozione da Monet a partire dagli anni ottanta dell’Ottocento, arricchito prima dallo stagno delle ninfee e quindi dal ponte giapponese, ma proprio la novità della pittura suscitata nella mente dell’artista da quell’universo artificiale in miniatura creato sulle rive della Senna, tenendo in mente come modello il mondo lontanissimo, eppure così ricco di attualissime risonanze sentimentali, del Giappone: sembra infatti di veder sfilare sotto gli occhi le tele dove lo sguardo di Monet cala lentamente sull’acqua stagnante per cogliere la sensuale carnosità dei fiori galleggianti, le insondabili profondità acquoree e il trascolorare dei cieli sulla superficie immobile come uno specchio, dove le nuvole, le stagioni e le ore, con quel che di più profondo, fuggevole e misterioso c’è in loro, sfilano maestosamente sfidando il trascorrere del tempo.

Proust non aveva potuto visitare il giardino di Giverny, ma nel 1909, nella galleria di Durand-Ruel, aveva ammirato le quarantotto tele di Monet esposte alla mostra Les Nymphéas. Série de paysages d’eau; inoltre, nel 1907, dopo aver visto, sempre da Durand-Ruel, una serie di dipinti dedicati a “Le bassin aux nymphéas”, era stato in grado di stendere una delle più belle descrizioni, “per forza di sensibilità e intelligenza”, del giardino di Monet:

“Infine se grazie alla protezione di Jean Baugnies potrò vedere un giorno il giardino di Claude Monet, sento che vi vedrò, in un giardino di toni e di colori ancor più che di fiori, in un giardino che dev’essere più un giardino-colorista che il vecchio giardino-fiorista, se mi posso esprimere così, fiori disposti a formare un insieme che non è proprio del tutto naturale, poiché sono stati seminati in modo che fioriscano contemporaneamente solo quelli le cui sfumature vanno d’accordo, si armonizzano all’infinito in una distesa azzurra o rosea, fiori che questa intenzione del pittore, manifestata con forza, ha smaterializzato, in qualche modo, di tutto quello che non è colore. Fiori terrestri, ed anche fiori acquatici, come le tenere ninfee che il maestro ha dipinto in tele sublimi delle quali questo giardino (vera trasposizione d’arte ancor più che modello di quadri, quadro già eseguito in quella natura che s’illumina sotto lo sguardo del grande pittore) è una sorta di primo schizzo pieno di vita, o almeno la tavolozza già pronta e deliziosa, sulla quale sono preparati i toni armoniosi”.

Proust, all’aprirsi del Novecento, sembra quindi, prese le distanze da qualsiasi nostalgia giapponesizzante, aver colto non solo l’importanza del Giapponismo in una fase ben definita dello sviluppo della pittura moderna, ma anche il significato profondo, ancora attuale, del vagheggiamento del Giappone messo in atto, nei suoi anni estremi, da un colosso come Monet, impegnato a rievocare sulle immense tele ispirate dal giardino di Giverny il panteismo naturalistico dell’arte giapponese, che lo aveva affascinato dapprima sulle piccole stampe policrome della sua raccolta, poi sui grandi paraventi a scomparti che davvero avvolgono l’osservatore come le Ninfee dell’Orangerie.

D’altra parte, è proprio la storia complessa e per certi versi contraddittoria del Giapponismo a spiegare le ragioni di questo estremo momento di vitalità di un fenomeno nato mezzo secolo prima. In sintesi estrema, si possono distinguere tre momenti principali del suo sviluppo, tre grandi ondate che hanno significati diversi, protagonisti diversi e anche motivazioni culturali diverse: dapprima la scoperta delle stampe policrome, alla fine degli anni cinquanta, e il rapido entusiasmo che contagia alcuni dei più grandi artisti e scrittori francesi (o attivi in Francia) a partire dai primi anni sessanta (basti pensare ai dipinti eseguiti da Whistler nel 1864, il suo “anno giapponese”); poi un momento di vera e propria esplosione della moda giapponese a tutti i livelli, dall’arredamento alle arti decorative all’abbigliamento, negli anni settanta, sostenuta anche dalle grandi esposizioni universali (Parigi 1867, Vienna 1873, Parigi 1878) che diffusero una conoscenza articolata della cultura e dell’arte del paese del Sol Levante, imponendo un gusto “giapponesizzante” che suscitò le perplessità di alcuni critici (come Zola) ed artisti (come Monet), infastiditi di veder così banalizzato un fenomeno che tanto aveva contribuito al rinnovamento linguistico della pittura occidentale; infine una terza ondata, a partire dalla metà degli anni ottanta, quando, andando ormai ad esaurirsi la passione per tutto ciò che era di gusto giapponese, alcuni artisti (come Gauguin, Van Gogh, Bernard, gli altri Nabis, Toulouse-Lautrec, i Secessionisti viennesi…) seppero ritrovare nelle stampe “del mondo fluttuante” nuovi spunti per nuove avventure formali, non più per moda o per esotismo, ma per far saltare le convenzioni dell’arte occidentale in modo molto più estremo e definitivo di quanto avesse fatto la generazione degli anni sessanta e settanta.

Questa terza “grande onda” di Giapponismo nella cultura europea trova un’esplicita, anche se un po’ enfatica, celebrazione nel testo di Roger Marx apparso nel 1891 sull’ultimo numero di “Le Japon Artistique”:

“Cosciente o inconsapevole, diretta o importata, benefica o dannosa, a seconda che giunga all’assimilazione dei principi emancipatori di un’estetica libera o all’adozione non ragionata di convenzioni esotiche, l’influenza dell’Estremo-Oriente si manifesta con l’evidenza brutale, rigorosa del fatto compiuto. Coloro che volessero dimenticarla si condannerebbero a conoscere male le origini dell’evoluzione moderna, a trascurare una valida spiegazione delle tendenze della pittura del XIX secolo, e a non riconoscere l’elemento essenziale di quello che costituisce a nostra insaputa lo stile odierno. Nello stesso tempo si troverebbero ad ignorare nella storia delle variazioni dell’arte l’esempio di una preponderanza decisiva fra tutte, paragonabile solo all’azione esercitata dall’antichità ai tempi del Rinascimento”.

Fu soprattutto la grafica europea, nei decenni di passaggio tra Otto e Novecento, a far tesoro del ricchissimo serbatoio di idee nuove contenute nelle stampe giapponesi: ed è proprio per questo che la mostra bresciana che andiamo a presentare trova particolari motivi d’interesse, allineando una ricca antologia di opere grafiche di diverse scuole europee che dimostrano un costante, anche se variato, interesse per l’arte giapponese. Dall’evocazione delle scene di intimità domestica di Utamaro, mediate dalla rilettura borghese di Mary Cassat, nella maternità di Charles Maurin, all’esibita citazione delle composizioni diagonali di Hiroshige in un’acquatinta di Eugen Kirchner, che appare in debito anche con le invenzioni di Henri Rivière, uno dei più appassionati divulgatori di idee giapponiste nella grafica europea di fine secolo. Da alcune celebri xilografie di Félix Vallotton degli anni novanta dell’Ottocento, dove il grande artista svizzero, rinunciando al colore per un severo ed essenziale bianco e nero, dimostra di aver meditato a fondo sulle eccentricità compositive e sulle potenzialità astrattive, in direzione di una decisa sintesi formale, presenti nei fogli più radicali dell’”ukiyo-e”, ad una serie di rievocazioni del mondo degli artisti nipponici, conosciuto direttamente dal praghese Emil Orlik durante il viaggio compiuto in Giappone nel 1900-1901 per studiare la tecnica della xilografia policroma.

In questi fogli l’immagine degli artigiani orientali protettivamente rinchiusi nella propria bottega, come in un sacrario dedicato al culto delle antiche tradizioni, lontano dalle tensioni e dalle distrazioni del mondo contemporaneo, in piena sintonia con i ritmi della natura, richiama alla mente le parole di una lettera di Vincent Van Gogh scritta da Arles al fratello Theo (settembre 1888):

“Studiando l’arte giapponese si vede un uomo indiscutibilmente saggio, filosofo ed intelligente, che passa il tempo a far che? A studiare la distanza fra la terra e la luna? No; a studiare la politica di Bismark? No; a studiare un unico filo d’erba. Ma quest’unico filo d’erba lo conduce a disegnare tutte le piante, e poi le stagioni, e le grandi vie del paesaggio, e infine gli animali, e poi la figura umana. Così passa la sua vita e la sua vita è troppo breve per arrivare a tutto. Ma insomma, non è quasi una vera religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici e che vivono in mezzo alla natura come se fossero essi stessi dei fiori? E non è possibile studiare l’arte giapponese, credo, senza diventare molto più gai e felici, e senza tornare alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo della convenzione”.

Vincenzo Farinella, gennaio 2005

Il testo è pubblicato in Giapponismo. Esempi dell’influenza della xilografia giapponese sulla grafica mitteleuropea del ventesimo secolo, Galleria dell’Incisione, catalogo della mostra, Brescia 2005

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