1 Marzo 2008
di Mauro Corradini
Pur partendo da essa, “l’opera d’arte si pone oltre la natura”, affermava, oltre due secoli fa, Johann Wolfgang Goethe nel dialogo Sul vero e sul verisimile. Siamo alla fine del Settecento, alle soglie di quel lungo cammino verso la contemporaneità, che poi abbiamo compiuto, superando in parte le contraddizioni proprie di una lunga e travagliata epoca. Nei due secoli che abbiamo attraversato, la cultura del dipingere ha raggiunto all’inizio una centralità davvero straordinaria per venire successivamente affievolendosi nell’attenzione dei più. È tuttavia rimasto intatto, in alcuni artisti che si sentono attratti dall’immagine picta, il contrastante bisogno di conservare e superare ogni volta il modello. Nel corso del Novecento, questi pittori sono usciti dal naturalismo e sovente lo hanno negato, ma ritornano ugualmente alla natura per superarla, drammaticamente a volte, con inesausto amore sempre. Per i “pittori” è stato più difficile conciliare nelle tendenze che venivano emergendo lo sguardo sul non visibile e quello sulla natura, la tensione verso la realtà e il bisogno di esprimere quel sogno che vive in ogni uomo.
Quando Gallizioli inizia a dipingere, sul finire degli anni cinquanta, la nostra cultura si dibatte ancora nel confronto tra astrattisti e realisti, o, per dirla con Venturi, tra artisti che tendevano al vuoto decorativismo e artisti che tendevano alla propaganda politica. Nelle poche opere di quella lontana stagione, emerge un’adesione che forse non è nemmeno una scelta, ma la volontà, comune a molti, di segnalare la propria individuale distanza dal neorealismo, attraverso l’uso di colori cupi e drammatici. Sono opere lontane dal Gallizioli che poi conosceremo, e appaiono indicatrici di una scelta di distinzione dai modelli diffusi e di distanza dal racconto. Per questo, la prima produzione vera, all’inizio degli anni sessanta, si rivolge alla terra; nascono le musne, una natura rivisitata dal di dentro, macerata dai ritmi dell’informale, che aveva aperto la strada all’invasione emotiva, cresciuta sulle tragiche scoperte di un dopoguerra carico di orrori (dai lager nazisti a Hiroshima): materia ed emozione convivono, coesistono in queste tele, in quei lontani disegni, proprio perché con l’informale, proseguendo una scia lunga tutta la prima metà del secolo trascorso, la pittura va ben oltre la natura.
Ma come ogni innamorato della terra, e poi verranno il mare e lo sguardo al cielo e alle coste dalmate, il bisogno di riposare lo sguardo nelle forre, nel bosco, nelle macchie di arbusti che segnano i sentieri sui colli, rimane inalterato; mutano i luoghi, ma tutto rimane sostanzialmente terra, radici, piedi ben saldi; come ogni innamorato della terra, anche Gallizioli ama sognare, vagare ad occhi chiusi, per meglio avvertire i silenzi e i brusii del bosco, dove i piccoli suoni hanno il sapore di un incanto svelato. Occorre riconoscere quei richiami, ad un tempo reali e mentali, quella foresta di simboli che continua, da quasi due secoli ormai, a guardarci con sguardi familiari.
È l’apertura al sogno che consente la fuga fantastica, l’apertura dell’immaginazione ai percorsi della mente; è il nuovo viaggio tra speranze e apprensioni, che il recupero surreale produce un po’ ovunque nel nostro paese, da Torino, dove c’era Surfanta, c’erano Abacuc e Colombotto Rosso, all’Europa, dove era facilmente recuperabile la memoria recente del surrealismo, la riscoperta delle foreste di Ernst e dei voli epici del muralismo messicano: vorranno dire qualcosa le adesioni di Gallizioli a questi movimenti, le aperture critiche di Edouard Jaguer, che scrive un’importante nota nella prima monografia del pittore, edita a metà degli anni settanta. Ma c’era soprattutto per il nostro pittore quell’insanabile contrasto tra industrializzazione e mondo contadino: e in Gallizioli, nelle opere di quel periodo, tra cesoie ed esplosioni, la componente meccanica è sempre aggressiva, una forbice che taglia, una chiave che rinserra; l’industria è caos, la natura è ordine, o, più ancora, disordinate misure.
I cieli caldi delle isole del Quarnaro, le coste assolate che scendono nei mari azzurri rinnovano il contatto con la terra, riportano il suo sguardo sulla natura, ritrovata in forme impensabili nell’orizzonte collinare della giovinezza; lo sguardo dell’artista aveva volato nei cieli con gli Angeli azzurri, aveva raccolto le esplosioni in un bisogno di ordine; proprio mentre la realtà deflagrava in quelli che abbiamo definito “anni di piombo”, la pittura che prima aveva mediato le tragedie quotidiane attraverso il recupero della memoria bellica, alla fine cercava il sereno. Gallizioli ha veleggiato su quei mari con gli occhi dei suoi Angeli, tra vendetta e mitologia ritrovata da primo sguardo sul mondo. E in quello stesso momento, ritrova la Natura; s’innamora di Cres e di Valun, di quel sole, di quel cielo, che spesso tracima nell’intensità del blu. In questi colori scopre un sogno segreto, che non apparteneva, non poteva appartenere, al suo colloquio con i sentieri che da Costalunga salgono alla Maddalena.
Scopre soprattutto la qualità e l’incanto della pittura, che quanto più si immerge nella natura, tanto più se ne allontana, per andare oltre.
Le musne da cui è partito hanno ancora un forte richiamo di segni e tracce; gli stupori e le visioni che vengono dalla natura, dopo gli anni ottanta, aprono lo sguardo, suo e di noi lettori, sul sogno interiore. Una volta compresa, fatta propria, riportata con felicità espressiva a misura intima e segreta, la natura rappresentata da Gallizioli diviene figura autonoma, forma privata e personale; diviene espressione e magia dell’animo. È la voce che si presenta con l’immagine di una rinnovata meraviglia, come se l’artista, ogni volta, ritrovasse il medesimo incanto di fronte alla felicità del mondo, dal filo d’erba che cresce, al piccolo seme che diviene grande quercia, a quell’onda marina che, sempre uguale, non cessa di mutare immagine nel suo continuo movimento; e fors’anche nel suo estinguersi sulla riva, sciogliendosi in un lento ribollire di gocce.
È difficile, per chi segue da tanti anni il lavoro dell’artista, riuscire a sottolineare tutte le impalpabili variazioni, che sono venute dal meticoloso lavoro sulla tela, dalla ricerca di stili e forme che gli consentissero di meglio tradurre la sua felicità visiva. Gallizioli recupera inizialmente le scansioni del post impressionismo, perché vuole martellare la tela con la frenesia di colori pieni di luce; oppure recupera i simboli della stagione appena successiva che voleva scientemente aprirsi al mondo dello spirito, senza perdere i sapori, i profumi, l’intensità delle notti d’estate. Ad un tempo dentro e fuori, l’artista condensa nelle immagini la sua partecipazione emotiva e la sua distanza dalle cose.
Anche questo è compito di un artista che voglia dare voce all’immaginazione, rendere esplicito quel “mondo segreto” che George Bataille ha incontrato, proprio quando il nostro pittore iniziava il suo percorso pittorico, nei segni della appena ritrovata grotta di Lascaux. Per Gallizioli l’arte rende possibile la felicità di una pittura, che il nostro secolo ha in parte, o in alcune sue componenti, voluto dimenticare, e afferma con puntiglio che la pittura, nonostante tutto, vuol sopravvivere alla superficialità dell’immagine dominante e alla banalità della novità ad ogni costo.
Mentre il Piccolo Miglio in Castello ha raccolto un ampio percorso che abbiamo di necessità contenuto in poche riflessioni, Giuseppe Gallizioli ha continuato a dipingere; e in questa sua dichiarata volontà di pittura, anche la scelta del pastello e dell’acquerello appare esemplare. Pastello e acquerello, a volte addirittura sul medesimo cartoncino, costituiscono un esercizio quasi privato, oggi, come la scelta della pittura. Nel suo Elogio del pastello, Jean Clair afferma, stupito, che probabilmente era difficile che qualcuno potesse mai credere “che quell’espressione di sensibilità pura che è il pastello sarebbe ritornata con forza dopo tanta aridità e tante teorie”.
Sensibilità pura: non credo esista espressione migliore per indicare uno strumento che “conserva la prontezza del gesto del primo (e in ciò è ancora disegno), ma acquisisce la differenza del risultato della seconda (e in ciò è pittura)”: disegno e pittura organizzate nel medesimo gesto; esiti distinti congiunti insieme.
E che Gallizioli si dedichi quasi con testardaggine ad una tecnica così poco frequentata, ci riconduce a quel nodo inestricabile che abbiamo colto nella sua storia; ad un tempo ragione e immaginazione coesistono in ogni sua immagine, sguardo e distanza, visione del micro e visione ampliata del mondo coesistono. Nei pastelli e negli acquerelli realizzati nell’ultimo biennio voli fantastici, cieli azzurri di un’intensità che gli deriva dalla pittura ad olio coesistono con le immagini di zolle cariche di fiori, aiuole cariche ancora di profumi e gocce di rugiada.
Queste ultime immagini definiscono la recente esperienza emozionata del mondo, che Gallizioli ritrova tanto nell’antica musna come nel cielo limpido d’azzurro intenso, fino ad inscurire nel blu che apre alla notte degli Angeli vendicatori. Forse non cerca più le misure; non vuole trascrivere le sensazioni che giungono in certi casi a quell’eccesso di sensibilità che sembra bucare la carta; Gallizioli forse non guarda più e disegna a memoria le sensazioni provate nel corso della vita.
E pure bisogna accostarsi a questi piccoli fogli intessuti di incanti; bisogna leggere in quelle nubi lattiginose il lento muoversi del vento che sembra sostenere il volo dei gabbiani. Certo, dietro al volo ci sono ancora il mare e l’estate di Cres; ma nuova è la spazialità che il pittore vuole esprimere, nuova è l’apertura a quell’immensità del cielo, che ha il respiro dell’infinito. Un infinito ritrovato per avventura nell’incupirsi di un tramonto, tra natura e cultura, ancora una volta, tra temporale lontano che investe l’Adriatico e memoria di Savoldo: una spazialità che ha il sapore di un’armonia ritrovata, come se la quotidianità della vita, riportata qua e là a misura con qualche presenza appena accennata (una forma chiara che si muove spingendosi a forza di braccia nell’azzurro delle acque estive), fosse ormai una cosa lontana, un pensiero che sfiora, come il volo del gabbiano, senza mai posarsi. Già: dove posano i gabbiani? dove posano i pensieri? dove i sogni?
La freschezza di queste sue recenti immagini appare stupefacente. E sono ormai diversi anni che assistiamo a questo costante rinnovamento, attraverso episodi minimali. Seguendo l’istinto, credo, più ancora che la riflessione cercata, Gallizioli alterna immagini, limitate nello spazio ristretto di un’aiuola, a visioni di ampio spettro; utilizza l’accostamento visivo al particolare fino a restringere l’immagine sulla piccola zolla fiorita, o apre il grandangolo dello sguardo per dar vita all’incanto di un prato che scivola verso il pendio, o quello del mare che si acceca con la luce del sole. Forse non ha più bisogno dello sguardo, non guarda più né la terra né il mare. L’occhio si fissa al contrario, con severa minuzia, sull’operazione pittorica: ogni pennellata, ogni tratto di pastello, ogni scelta espressiva e stilistica, tutto viene ricondotto a quella misura che, unica, può dar conto del sogno, può essere nello stesso tempo misura dello sguardo e misura dell’emozione.
Gli acquerelli e i pastelli di Gallizioli entrano di diritto nella sua storia pittorica, e confermano le scelte che abbiamo intravisto nella sua lunga storia; non so nemmeno se volute o nate da differenti occasioni e poi ricondotte a misura dal mestiere; quel che importa vedere è il risultato di un’intensità espressiva che vuole essere nella natura attraverso la pittura.
La pittura crea un mondo, che esista o meno, poco importa; la pittura apre la porta di un luogo magico, in cui il nostro occhio affaticato riposa. Credo che la difesa della pittura operata dai pittori come Gallizioli, coerente e costante, in un mondo che viaggia sovente verso altre direzioni, che negano la pittura e spesso anche l’opera a vantaggio della performance e dell’idea, sia sostanzialmente ancorabile a quella sua capacità di inverare l’immagine, dare certezza alla precarietà dell’esistere. Nessuna icona è possibile se mancano gli strumenti e la forza della rappresentazione.
Verranno altri strumenti, altri mezzi poetici –e in parte sono già venuti. Gallizioli appartiene alla schiera che difende la pittura come manifestazione del proprio sogno; un sogno che parte dai sentieri di casa, dal giardino, dall’aiuola di casa, e si dilata di fronte allo splendore del mare del mattino, sulle coste rivolte ad occidente, quando il sole scende dai colli che stanno alle spalle e si immerge nell’intensità delle acque. In questo ampliamento d’orizzonte c’è un ritorno all’infanzia, allo stupore di ciò che l’occhio infantile scopriva nei grovigli dei rovi, nell’intrico del niente.
L’artista raccoglie per questa via lo stimolo dell’immaginazione che non abbisogna di nulla per inventare un mondo. Quello di Gallizioli ha in sé la magia dell’infanzia e la maturità di un mestiere radicato nel gesto della mano che deposita una traccia sul supporto; da qui l’incanto e la visione, la certezza della realtà. La natura e il sogno coesistono; e nel distribuirsi nei mille rivoli di colore mantengono una loro consistenza e verità.
Entrando negli acquarelli e nei pastelli dell’artista bresciano, sorge spontaneo il dubbio che solo l’arte può togliere a noi tutti il fastidio inquieto di una sottesa precarietà dell’esistere; come se solo l’arte potesse salvare il mondo da quella dissoluzione, che sembra a volte dominare i gesti e le azioni degli uomini.
Mauro Corradini, Gussago, marzo 2008