18 Ottobre 1999
di George Grosz
In questo brano della sua autobiografia George Grosz descrive Richard Müller, suo insegnante all’Accademia di Belle Arti di Dresda.
Le lezioni del nostro insegnante capo, il professor Müller, non erano da prendere sottogamba. Müller era un accanito sostenitore della disciplina e della puntualità militare; egli stesso un instancabile lavoratore, restava al proprio posto dalle sei del mattino sino alle otto di sera, e quando faceva scuro lavorava alla luce della lampada. Una volta che ero arrivato in ritardo, quando già stava facendo l'appello, mi urlò: "Dove sei stato!? Cosa? Ti sei alzato tardi? Che?! Ieri notte sei stato fuori a bere? Cosa? Che significa che hai perso il tram? Uomini come te, col tuo talento, dovrebbero essere qui con un quarto d'ora d'anticipo, ad attendere che s'apra il portone dell'accademia! Al lavoro!". Utilizzava l'appoggiamano esattamente come facevano con il bastone i maestri a Stolp; e non mi restò altro da fare che rincantucciarmi al mio posto, come un cane bagnato.
Ci faceva lavorare sodo e lo faceva con tale autorità che non potevamo ridere di lui, come avremmo voluto. In lui c'era qualcosa che non permetteva di contrapporglisi; semplicemente, obbedivamo. Certo alle sue spalle lo schernivamo, ma quando ci guardava con i suoi penetranti occhi azzurri obbedivamo in silenzio.
Un aspetto che ce lo rendeva gradito era il fatto che non era noioso. Si citavano molte sue frasi argute e originali asserzioni e il suo sarcasmo feroce disarmava un po' tutti. Durante l'intervallo, un giorno, stavo nel corridoio a mangiare il mio panino, quando Müller uscì dal suo studio, con l'ultimo libro di successo in mano. Senza peli sulla lingua esclamò: "Va tutto in merda! Sprechi il tuo tempo!".
Anche parlando a noi o ai modelli usava questo linguaggio duro, infarcito di parolacce; e qualsiasi cosa fisica avesse attratto la sua attenzione veniva discussa in classe. Un giorno, una certa parte di un modello maschile era sorprendente gonfia. Müller lo notò e proruppe: "Che succede? Cos'hai? Sei malato, forse? Eh? Sembri una forma di pane molle! Cercati un medico!". Aveva urlato come un sergente in caserma, così nessuno si sentì offeso.
Forse perché in lui c'era una punta di sadismo o perché esigeva tanto da se stesso, fatto sta che di frequente chiedeva ai modelli difficili pose. Talvolta dovevano stare in punta di piedi, una gamba piegata verso la schiena, e con una mano tenere un cerchio di legno, così da impersonificare una ragazza che gioca. Poiché queste pose erano tanto difficili da mantenere, molti dei modelli, specialmente le donne, erano riluttanti a posare nelle sue classi.
Una delle sue favorite era la giovane Wittschass, perché era intrepida e se ne stava in piedi spavaldamente, quanto a lungo si fosse voluto. Anche per lei, però, la "ragazza che gioca con il cerchio" era un po' troppo, sebbene avesse un sostegno cui appoggiarsi e dal soffitto pendesse un'imbracatura che le sorreggeva la gamba; anche questa ottima modella doveva fare qualche pausa, per raccogliere le forze. Spesso Müller disegnava con noi, perché di queste complicate pose aveva bisogno per le sue acqueforti, e odiava le interruzioni ripetute. Avrebbe pagato perché il modello, prima che si iniziasse a disegnare, si pietrificasse. In un'occasione, la povera ragazza era esausta e pregò: "Professore, io... non ce la faccio". Müller sbottò: "Cosa?! Cosa?! Non sai che una modella come te, Fraülein Wittschass, dovrebbe fluttuare nell'aria come un angelo? Dovrebbe stare ferma come un albatros in volo? Non ti muovere. Devo ancora ultimare il cerchio!". Non che il cerchio fosse decisivo, avrebbe potuto disegnarlo pure senza di lei.
Ogni cosa doveva essere segnata col gesso, e misurata al millimetro, cosicché il giorno seguente la posa potesse essere la medesima. Per tre settimane i modelli dovevano assumere la stessa posizione e queste sedute interminabili resero noi studenti maniaci scrupolosi. Ogni giorno v'era chi trovava dei difetti, e insisteva che un braccio dovesse stare più a destra, e un piede rivolto più all'esterno. Accadeva che occorressero giorni perché i contorni generali potessero venire evidenziati sulla carta, e l'accolita coscienziosa dei critici raggiungesse un'intesa. Col senno di poi, era donchisciottesco, ma si perdeva davvero il sonno per le erronee proporzioni e la disapprovazione del professore.
Un coraggioso burlone, a nome Hubert Rüther, si divertì una volta a scambiare a caso i segni dei gessi, dopo le lezioni, quando nessuno l'avrebbe potuto sorprendere. Il giorno seguente, quando demmo le indicazioni per la posa del modello, per un momento ci domandammo cosa fosse accaduto. Comprendemmo, e comprese pure il professor Müller, il quale non proferì parola, ma da quel giorno si servì delle pose più strane soltanto nel suo studio.
Tratto da George Grosz, Una autobiografia, SugarCo Edizioni, Milano 1984