15 Ottobre 2005
di Lorenzo Viganò
Un’auto familiare parcheggiata di fretta, con due ruote sul marciapiedi. Un camion giallo, modello «Duel», fermo in fila a un semaforo. Una spider amaranto che staziona in un quartiere fatto di villette e giardini. E ancora. Una bandiera a stelle e strisce mossa appena da un vento leggero. Nuvole che salgono, si addensano, si muovono (ma si avvicinano e se ne stanno andando?). Un’insegna pubblicitaria che come un totem celebra il mito americano del fast food. Alberi rubati da paesaggi rinascimentali, che incorniciano immobili strade, incroci, zone residenziali.
La prima cosa che si sente guardando i quadri di Jonathan Janson è il silenzio. Il silenzio inquieto, innaturale delle città senza voce. Le città da cui una mano invisibile ha cancellato le parole lasciando solo i rumori, i suoni, il niente. Si sentono i motori delle auto, lo scoppiettio dei tubi di scappamento, lo stridere delle ruote sull’asfalto; si sente l’impercettibile frusciare delle foglie, la musica che sale da un’autorimessa, il canto impastato di un grillo.
Ma non si sentono voci umane.
Cercateli pure, non li troverete: non ci sono esseri viventi nelle città di Jonathan Janson e nei suoi «American Days», i giorni americani. Per le strade, nei parcheggi, sui passaggi pedonali non si vedono bambini, famiglie, manager; vecchi, coppiette o casalinghe. Si intuisce che ci sono, perché ci sono i segni visibili e vivi della loro presenza - le auto, le case, gli ipermercati. Ma loro non appaiono, non si mostrano; chiusi come sono nelle loro quattroruote, nelle stanze dei motel, nei centri commerciali, nelle villette a due piani.
Persino quel giovane solitario che fa jogging (ma da dove è uscito? e perché si trova lì?) sembra arrivato apposta per enfatizzare il vuoto umano ed esistenziale che lo circonda. Per mostrarcelo. Quel vuoto fatto di fuoristrada, berline e sportive – chè la tipologia delle persone è simbolizzata dai vari modelli -, che sono diventate ormai per tutti prolungamenti fisici, protesi per muoversi, simboli da esibire, ma anche (e sempre più) rifugi dove nascondersi, dove proteggersi. Dove isolarsi.
O mezzi per scappare.
Perché le città di Jonathan Janson non sono città fantasma, anche se a tratti potrebbero sembrarlo. La vita c’è e vi scorre dentro con il flusso del traffico; non «una» vita, ma «tante» vite, che si sfiorano a motore acceso, con i finestrini alzati e le porte chiuse; che si incrociano, si fermano fianco a fianco poi ripartono, dividendosi e ritrovandosi, come seguendo i passi di un ballo improvvisato.
Come le nostre esistenze.
Ma dove vanno, cosa fanno gli abitanti invisibili delle città di Jonathan Janson? (lavorano? partono? si spiano?). E soprattutto chi sono?
Provate pure a guardare attraverso i finestrini, non li vedrete. Non scorgerete un volto, un profilo, un gomito che spunta attraverso la portiera. Le storie degli «American Days» sono storie nascoste. Invisibili. Che si consumano al chiuso di locali, di stanze d’albergo, di ricchi appartamenti, come nei racconti di Raymond Carver. Non sono storie esplicite, rintracciabili, interpretabili (quasi) immediatamente; e non sono nemmeno simboliche, come spesso accade in pittura. Sono racconti segreti, che vanno indagati, scoperti. A noi il compito di farlo: di intuirli, di interpretarli. Di portarli in superficie, di farli uscire alla luce. Un po’ come accade sui luoghi dei delitti, dove la vicenda che si è appena consumata è scritta nella scena, bisogna solo saperla leggere. Ma mentre lì il processo è razionale, investigativo, un puzzle che va via via ricostruito, qui, nelle tele di Janson, negli acquerelli, negli oli, il procedimento è innanzi tutto emotivo; più di cuore che di testa. Più personale che universale.
E non lasciatevi ingannare dalla precisione della sua pittura, dall’estrema cura per i dettagli, dall’attenzione per le più piccole e (solo) apparentemente insignificanti sfumature; dal lungo e minuzioso lavoro che sta dietro a ogni tela. Jonathan Janson non è un pittore iperrealista. Le sue auto, le sue città non sono come quelle di Robert Bechtle, di John Salt, di Ron Kleemann. Non hanno quella freddezza, quell’assoluta asetticità che hanno le fotografie, elette proprio per questo dagli iperrealisti a loro soggetto privilegiato. Qui è il gesto pittorico a occupare la scena, a venire in primo piano, con forza. E a rendere l’immagine più viva, più calda. Più artistica.
Guardate i cieli, e la stessa luce che filtra attraverso le nuvole; guardate l’asfalto, l’orizzonte sfumato (come solo l’occhio umano, e non la macchina fotografica, lo percepisce); guardate le targhe, di cui mai si legge un numero, una lettera. Se Robert Cottingham, newyorkese di Brooklyn, ha tolto dalle sue scene urbane le figure umane perché «distraggono troppo», la scelta di Jonathan Janson sembra avere un altro significato: quello di aumentare il mistero, di trasformarci da semplici spettatori in protagonisti di ciò che ci mostra. Che ci fa quell’auto parcheggiata di fronte al Car wash? E quell’altra, su una strada di Seattle, è ferma o sta inseguendo lenta il pikappa rosso che la precede?
Se il punto di partenza è spesso lo stesso degli iperrealisti, se i soggetti e gli scorci anche, Jonathan Janson più che quella strada percorre la sua parallela. E questo appare ancora più evidente guardando gli acquerelli, le cui scene sono sempre ritratte da lontano, quasi ad accentuarne l’indefinibilità, l’incertezza; quasi a impedire a chi le inquadra di metterle a fuoco. I contorni sono sfumati, e la realtà appare più trasparente, meno «vera», o per lo meno non «una» soltanto. Cosa fa quell’uomo con la maglietta gialla? sta innaffiando il prato o sta spiando nel giardino dei vicini? o, come suggerisce il titolo, sta bevendo una birra? Ogni inquadratura sembra un fotogramma in bianco e nero, dove improvvisamente un colore si accende – il prato di una casa, il cofano di un’auto, il tetto di un capannone… – ma è solo un indizio, un mezzo per sussurrare all’occhio di chi guarda che c’è (ancora e sempre) una storia nascosta, una vita segreta, da scoprire.
Certe volte sembra quasi che il paesaggio fluttui nell’aria, come succede in estate quando il caldo che sale dall’asfalto trasforma auto, case e strade in miraggi tremuli. Ma qui non sembra estate: qui i cieli sono grigi, forse ha piovuto o pioverà. E la sensazione che ci investe non è per niente rassicurante. Qualcosa si sta forse preparando, o è già successo. Non sappiamo, non capiamo. Perché quelle sdraio ai margini della strada sono vuote? E quelle saracinesche: sono abbassate o alzate? E poi: che ore sono? sarà mattina o pomeriggio? È festa o è un giorno qualunque?
Come nei romanzi dei grandi scrittori, è il non detto, il non raccontato a dare profondità alla storia. È ciò che non si vede (e non si sa) da attrarci. E l’America di Jonathan Janson è un’America segreta, nascosta dietro le case ordinate, i vetri dei supermercati, dietro i finestrini delle auto. Un’America, per lui originario del New Jersey ma da oltre trent’anni a Roma, forse ormai misteriosa. È lo specchio lucido dello spaesamento nel quale si viene a trovare quando ritorna nelle città dell’infanzia. Quando (ri)vive i suoi «American Days». Un’America che è l’immagine dell’estraneità, di quel sentirsi «fuori» da una vita che invece è tutta «dentro», interna e interiore (e che non a caso i suoi ritratti vermeeriani provano a svelare).
È, forse, solo un’illusione dietro a quella che crediamo la realtà. E che Jonathan Janson cerca di afferrare trasferendola sulla tela.
Lorenzo Viganò, ottobre 2005
Il testo è pubblicato in Jonathan Janson. American Days, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2005