15 Ottobre 2019
di Chiara Gatti
Oggi Leone Lodi (Soresina 1900-1974) è riconosciuto come uno dei maestri della scultura del Novecento italiano. Ma, come accade spesso anche per i maestri, molti aspetti della produzione permangono in ombra rispetto ad altri magari più celebrati. Famoso per le opere pubbliche e per quella carriera che lo portò a lavorare sulle facciate di mezza Milano, legando il suo nome alla storia dell’architettura milanese, al fianco di grandi progettisti come Paolo Mezzanotte, Giuseppe Pagano e Agnoldomenico Pica (amico affezionato), Lodi resta meno esplorato nella sua riflessione intima, lontana dai clamori della critica e delle mode. Una ricerca meditata, fatta di sperimentazioni inesauste sui materiali, sulle tecniche, sul linguaggio. La sua originaria formazione nella bottega di Adolfo Wildt lascia impresso nel suo ricordo le linee sinuose, la sintesi elegante di un plasticismo lirico, mai retorico che lo preserverà, negli anni della maturità, dal dettato severo e grave dell’estetica di regime. L’umanità dei suoi personaggi è immutata nel tempo, persino nella statuaria destinata ai cantieri del Palazzo della Borsa, del Palazzo di Giustizia o sulla facciata dell’edificio di via Fabio Filzi, disegnato da Eugenio Faludi in stile razionalista, il vigore cede alla dolcezza.
Lodi si concede al racconto di storia ma sublimandolo nel mito, nell’allegoria, nella poesia. Ecco allora una mostra personale che ripensa – all’indomani di altre esposizioni istituzionali di rilievo, come “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943” curata da Germano Celant per Fondazione Prada e l’omaggio a Margherita Sarfatti al Museo del Novecento di Milano – all’opera di Lodi nei termini segreti, nel suo fare quotidiano, nel suo silenzio riservato. Sculture come la grande Venere o l’Atleta, i busti di fanciullo o le testine femminili di gesso tradiscono l’indole di un artista che elaborò un lessico diverso rispetto ai toni elevati degli incarichi pubblici e delle iconografie tradizionali. Indagare lo spirito delle figure era una vocazione che lo vide recuperare la lezione dei primitivi, degli scultori amatissimi del Duecento emiliano, studiati nei gesti lenti dei suoi angeli o del Giovinetto seduto, citazione dell’antico Spinario.
Commuove la sua spiritualità sofferta, vicina ai modi scelti per le commissioni borghesi del Cimitero Monumentale, dove le scene classiche sposano la tenerezza della “sua” pietra. Leone Lodi è riuscito più di chiunque altro a levigare il travertino, il botticino, l’alabastro o la pietra dorata di Vicenza a caccia di sfumature dell’anima, di moti nascosti nelle cavità della roccia. Il mestiere dello scalpellino, imparato da ragazzo nei cantieri della modernità, gli impresse nelle dita la sapienza artigiana piegata nel tempo al suo talento di indagatore di energie insite nella materia. Una dedica di Pica su una vecchia fotografia dice tutto dell’affetto e della ammirazione che lo legava all’amico scultore:
«A Leone Lodi animatore di volumi nello spazio, suscitatore di miti nella materia».
Chiara Gatti, settembre 2019
Il testo è pubblicato in Leone Lodi. Le tenerezze della pietra, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2019