22 Ottobre 2019
di Valerio Terraroli
Leone Lodi: chi era costui? La risposta è più semplice di quanto si immagini poiché la maggior parte delle persone conosce una sua opera senza averla mai collegata al suo inventore. Percorrendo l’autostrada Milano-Venezia, all’altezza dell’uscita di Bergamo si staglia, ormai tra cavalcavia e raccordi stradali e lo skyline non proprio felice della periferia cittadina, un oggetto architettonico-plastico che è impossibile non vedere, ma soprattutto non ricordare, anche perché quasi nessuno dei viaggiatori ne conosce l’utilizzo o ha idea di chi sia l’autore di quei monumentali simboli in altorilievo che ne decorano la sommità.
Quell’oggetto esagonale in mattoni rossi di clinker chiamato Torre dei Venti, in analogia con la torre ottagonale eretta in età ellenistica nell’agorà di Atene come custodia per un orologio ad acqua e decorata da bassorilievi rappresentanti le divinità protettrici dei venti a cui era dedicata, fu commissionato all’architetto Alziro Bergonzo e al suo sodale, lo scultore Leone Lodi, nel 1940 in occasione dell’attesa visita di Benito Mussolini a Bergamo per l’inaugurazione della Casa Littoria, realizzata su progetto dei medesimi. Pensata per essere il simbolo di accesso alla città in un crocevia di strade, una sorta di segnacolo monumentale, la Torre presenta una struttura geometrica nitida, priva di qualsiasi orpello ornamentale, ma coronata da sei pannelli in altorilievo con i simboli della città (il Leone alato di San Marco) e di Roma (la Lupa capitolina), ma soprattutto con la Vittoria fascista, la quale brandendo il fascio littorio compie, con le ali spiegate, un balzo potente e di eccezionale vigore plastico. Leone Lodi era, ed è questo. Uno scultore intelligente, colto, capace di trasferire la conoscenza della storia e i modelli del passato in forme contemporanee, essenziali e vigorose, per non dire titaniche, il cui modellato rimanda immediatamente, e inevitabilmente, al magistero di Arturo Martini e, tout-court, alla ricchissima stagione della scultura novecentista, in parte ancora da studiare, riscoprire e rivalutare, al di là dei contenuti ideologici organici al fascismo, per la qualità plastica, l’invenzione artistica e la simbiosi con l’architettura contemporanea.
Due mostre importanti (a cura di Nicoletta Colombo, Milano/Crema 2006 e a cura di Chiara Gatti, vera esegeta dell’artista, Soresina 2012-2013) e due significative guide all’opera di Lodi, sempre a cura di Chiara Gatti del 2015 e 2017, hanno messo a fuoco con acribia e passione la figura dello scultore, la sua formazione, i suoi percorsi, la sua produzione, ancora oggi testimoniata, ed è questo un fatto importante quanto raro, dalla ricca gipsoteca, archivio e biblioteca conservato amorevolmente a Soresina, patria dell’artista, dalle sue due figlie, Serena e Daniela, animatrici instancabili dell’Associazione Leone Lodi. La mostra allestita nella Galleria dell’Incisione da Chiara Fasser, nel solco della sua pluridecennale ricerca e valorizzazione dell’arte italiana del Novecento, è un ulteriore, e raffinato, contributo alla conoscenza non solo del personaggio, ma di una stagione della scultura italiana che riserva ancora molte sorprese.
L’esordio di Lodi è sotto l’egida del magistero di Adolfo Wildt, ma anche, di sfondo, del croato Ivan Meštrović, come si evince dal Busto di giovinetto (1919) per quel collo allungato, la scelta antinaturalistica e i tratti del volto ridotti ad una cifra decorativa di sapore secessionista che si ritrova anche nei disegni coevi. Una modalità espressiva ancora nella sostanza intatta nella seconda metà degli anni Venti, per quanto intrisa di un plasticismo più risentito, riconoscibile in Autoritratto (1928) e Ritratto di Agnoldomenico Pica (1929), quando lo scultore entra nell’orbita di Margherita Sarfatti, del gruppo di Novecento e, quindi, di Arturo Martini. Tuttavia, pur negli evidenti rimandi e nelle inevitabili similitudini, Lodi mantiene un proprio modus operandi, perfettamente riconoscibile. Si potrebbe anche dire che rispetto all’arcaismo novecentista di Martini, che rimanda alla coroplastica etrusca così come ai volumi pittorici di Carlo Carrà, Lodi sembra mantenere vivo, all’interno delle proprie sculture, un taglio incisivo combinato con un classicismo temperato, dalle Portatrici d’acqua e dall’Angelo annunciante (1931-1932) alla Donna accovacciata (1929), che rimandano immediatamente ad Antelami come ad Arnolfo di Cambio, fino a Donna dormiente (1932) che ci riporta ancora una volta a Martini e alla sua Pisana (1929), ma, lo si vuole ribadire, caratterizzata da una propria originalità e da una propria decisa qualità plastica.
La svolta monumentale avviene negli anni Trenta, sia per le strette sinergie con l’architettura, dal Palazzo della Società Elettrica dell’Adamello (1928) a Palazzo Mezzanotte (1929-1932), dal Palazzo della Triennale (1933) al piacentiniano Palazzo di Giustizia (1938-1939), sia per la relazione d’amicizia che lo lega a Mario Sironi, corifeo del muralismo e di un’arte pubblica inesorabilmente legata al regime. Tuttavia nelle sculture per la Triennale del 1933, la prima svoltasi a Milano nel Palazzo dell’Arte di Muzio, oltre al plasticismo arcaicizzante martiniano, riconoscibile nel possente Acquaiolo, permane un’eco vagamente déco nella Testa di giovinetto con corona d’alloro, o addirittura wildtiana, come nel raffinatissimo Il dono, scolpito da Lodi in alabastro (con il dettaglio della corona d’alloro dorata) per la saletta degli Orafi.
Il ruolo di Lodi nel panorama milanese risulta dunque di assoluta preminenza ed egli vive appieno quel clima fervido di creatività, ma anche attraversato da sotterranee tensioni di autonomia rispetto alle volontà celebrative ufficiali, che egli tuttavia non sente proprie, tutto orientato, come è, nello studio della storia e nella linea di un “neoclassicismo” novecentista. Nel 1934, sottoscrive, insieme a Sironi, Martini, Muzio, Carrà, Campigli, Funi, Semeghini e ad altri, un manifesto nel quale viene auspicata la fondazione di un’Accademia delle Arti contro l’“avanguardismo superficiale”, l’“estetismo” e l’“astrattismo”, in favore di un impegno grandioso degli artisti in un risorgente “concetto classico delle arti”, ma evitando, contemporaneamente, di dichiararsi a favore di un’arte popolare e sociale e, soprattutto, evitando riferimenti espliciti al clima fascista utilizzando l’ambigua formula “umana concezione latina”.
Se nel 1940, come si diceva in esordio, Leone Lodi esibisce ancora intatta la propria fede novecentista/martiniana, come nei fregi per la Torre dei Venti e per la sede della Bocconi, la sua declinazione classicista si accentua sempre di più, quasi al limite dell’imitazione della statuaria antica, dalla Ballerina (1942) alla Venere (1946), dal Giovinetto (1956) al Pescatore, un elegantissimo bronzo del 1955-1956, restando inalterata fino alla fine dei suoi giorni.
Leone Lodi sembra intoccato dal dramma della guerra, quando Martini scrive “Ogni cosa è andata a fondo” (dicembre 1943), e dal crollo del fascismo, così come dalla pubblicazione nel 1945 del saggio La scultura lingua morta, nel quale Arturo Martini sconfessa drammaticamente la statuaria, quella stessa statuaria alla quale Lodi ha dedicato la propria vita e il proprio credo nel convincimento inossidabile che l’arte, come nell’antichità, sia, insieme, mimesis della natura e riscatto ideale dalla banalità del quotidiano.
Valerio Terraroli, settembre 2019
Il testo è pubblicato in Leone Lodi. Le tenerezze della pietra, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2019