14 Marzo 2025

Marco Vallora

di Francesco Maria Colombo

Testo pubblicato originariamente su Facebook il 27 ottobre 2022. Riprodotto con il consenso dell'autore.

Adesso che lo stordimento si dirada e, come scrive Buzzati nella “Madre”, “la giornata ricomincia a macinarmi con le sue aride ruote”, vorrei dire qualche cosa di meno soggettivo su Marco Vallora e ciò che, mi pare, lo ha reso così unico nella cultura italiana. Così come mi viene, senza troppo pensarci.

1 - La sua presenza era dappertutto: non solo perché non c’era mostra o concerto dove non lo si incrociasse o libro che non avesse già letto o pensiero o contatto con cui non avesse stabilito il legame che era suo e nel quale la componente intellettuale era funzione dell’affettività; ma perché Marco spuntava dovunque, nella memoria e nel caso. Qualche giorno fa ho preso in mano dopo tanti anni “L’impero dei segni”, mi sono messo a leggerlo ed ero stupefatto dalla sottigliezza, dalla fluidità fantasmagorica e tuttavia trasparente del tono assunto dalla lingua italiana in traduzione, tono che magicamente replicava il potere di fascinazione della lingua di Barthes. Vado a controllare e la traduzione era del giovane Vallora (che di Barthes era stato allievo): non me lo ricordavo più. La stessa cosa mi è accaduta tante volte sfogliando i cataloghi d’arte. E, dovunque scrivesse o parlasse, quel che diceva (una prospettiva, una struttura alternativa dell'oggetto, una connessione impreveduta, uno strato trascurato del pensiero) non ci lasciava più.

2 - Era un bulimico: amava profondamente e con un abbandono morbido e sfinito tutto il sapere, tutta la bellezza, tutto il mistero dei caratteri e delle individualità. Era uno degli uomini più soli che abbia mai conosciuto, ma aveva un numero sterminato di amici perché nessuno per lui era fungibile. Bien, di persone bulimiche rispetto al sapere ce ne sono tante e ce ne sono state tantissime, a partire da Arbasino che per Vallora era un punto di riferimento evidente, ma dal quale lo dividevano, mi pare, più cose di quante non li unissero. Ma un conto è sfiorare il sapere in modo superficiale, un altro è conoscere davvero le cose. Trent’anni fa ero con lui a Dresda e andammo a vedere la magnifica pinacoteca, la collezione di Augusto il Forte, che lui non aveva mai visitato. In tre sale entrammo, ci fermammo nel mezzo, e lui tranquillamente guardò i quadri e di ciascuno riconobbe l’autore pronunciandone il nome: in un istante, tutti, senza fallo alcuno. Io, che sono un cialtrone, facevo vanto di conoscerne due o tre. Lui fece l’expertise immediato e preciso dell’intera collezione. Questa era la sua preparazione, per citare solo un angolo della sua mostruosa cultura: non dimenticherò mai quel giorno (poi nel pomeriggio incontrammo Sinopoli con il quale parlò di Mahler e di Klopstock, ingozzandosi di pasticcini come un bambino. C’era molto di fanciullesco in lui, era un adorabile e capriccioso bambino triste).

3 - Penso che Marco Vallora sia stato l’ultimo grande flâneur della cultura italiana, in un senso molto preciso. La flânerie non è solo passeggiare e scoprire tante cose grazie al caso o al ghiribizzo dello sguardo; è soprattutto farlo come se tutto ciò non debba recare a nulla: in fondo alle strade del flâneur non c’è niente e nessuno che lo aspetti, il suo destino e il suo stile risiedono nel vivere, letteralmente, en passant: Marco era così, come lo fu tanti anni prima Bruno Barilli, cui spesso mi faceva pensare. La dissipazione, la noncuranza per il risultato concreto, l’esistere in forma incidentale, senza una vera dimora perché i libri gli avevano espropriato la casa, saltando sempre su un treno fino all’ultimo sul quale è morto, erano la sua natura. Per tutti noi che lo invitavamo a scrivere in modo sistematico, a raccogliere, a mettere a frutto, lui aveva quel sorriso sornione e un po’ spaesato dove c’era la testardaggine, l’ostinazione di fare a modo suo: e aveva ragione, perché il mettere a frutto non è solo un’illusione, è un’attitudine priva di eleganza. Come tutti i gran signori, Marco scialava: sprecava il suo tempo nella lotta impari con le redazioni dei giornali (lamentandosene sempre, aveva persino una cadenza tutta sua nell’esercizio e nella fonazione della querimonia), scriveva saggi lunghi venti volte quanto commissionatogli, quasi sempre senza prendere un soldo e arrivando in ritardo, faceva viaggi assurdi, mangiando malissimo e sudando sotto il peso dei maglioni che portava anche d’estate e dei libri che gli sfondavano le tasche, per vedere la mostrina di un amico in un paesino dove arrivava solo un regionalino sgangherato: la sua poteva essere una passione nel duplice senso del termine. È incredibile come uno degli uomini più colti, più dotti, più acuti, più geniali della nostra cultura non abbia mai voluto scrivere un libro; ma chiunque l’abbia conosciuto sapeva che non poteva essere che così: la verità sta nel frammento, nell’intuizione, nella provvisorietà libera dall’ossessione dell’obiettivo. Il flâneur che si dia un obiettivo diventa un turista, lui ne era l’opposto.

4 - E questo mi porta a pensare quale fosse l’unicità di Marco Vallora tra tutte le persone di cultura che ho mai conosciuto. Era libero dall’ossessione dell’io, e questo lo graziava da una specie di coazione professionale delle persone colte: l’essere, con poche eccezioni, tromboni. Era il contrario del trombone che se la tira. Aveva un pensiero forte, originale, una prospettiva tutta sua sulle cose e sapeva lottare da protagonista per manifestarla (si pensi solo alle polemiche sulle Biennali veneziane): ma disperdeva quel pensiero con una specie di grazia svagata, di distrazione, di quello chic che si ha solo mercé lo spossessamento. Era come se non dicesse mai “io dico”, “io qualifico”, “io proclamo”, “io stabilisco”, e tanto meno “io vi rivelo”: non ne aveva bisogno. E mai, mai “ho fatto questo, ho fatto quello”: portata a termine (transitoriamente) una cosa, se ne era già distaccato e quella non gli apparteneva più. Per questo era diverso dai tromboni (e diverso da me, che sono spesso un trombone stonato): incarnava l’ossimoro per il quale l’umiltà è la più aristocratica delle virtù ed era un uomo di eleganza suprema. In quarant’anni di amicizia l’ho sentito dire “io” pochissime volte (quasi sempre per lamentarsi di qualcosa, un mal di denti, un concerto perso, ma anche in questo caso aveva un che di dolcemente orientale, di mollemente ironico): quella forma di libertà era la sua classe, il suo stile, il suo prestigio. E lo rendeva amabile nonostante un carattere pieno di ombrosità e una dissennatezza, nelle dimensioni pratiche della vita, che tutti avevamo rinunciato a correggergli. Parlava, per così dire, in tralice; sempre in forma dubitativa; sempre accogliendo la complessità, la multiformità e la mutevolezza dei movimenti di gusto e di idee: la forma del suo eloquio, colma di gentilezza, era la stessa cosa del contenuto di pensiero.

5 - Nel meraviglioso “Eupalino o l’architetto”, Paul Valéry immagina un dialogo tra Fedro e Socrate a proposito di un bianco oggetto misterioso che il mare ha rigettato sulla rena, dove brilla. “De quelle matière était cet objet?” domanda Fedro e Socrate risponde: “De la même matière que sa forme: matière à doutes”. Il mondo e la vita erano questa “matière à doutes” che non si è mai stancato di carezzare, cui ha regalato il suo sorriso malinconico e un amore caparbio e timido e doloroso e fedele. Caro, unico, indimenticabile amico.

— Francesco Maria Colombo

cross
linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram