1 Marzo 2001
di Emanuele Bardazzi
Il capolavoro del Guanto nacque nel 1878 come ciclo di disegni a penna che due anni dopo l’artista decise di incidere ad acquaforte e acquatinta per dar loro una maggiore diffusione.
La prima edizione a stampa vide la luce a Berlino nel 1881. Pare che nel ciclo dei disegni l’ordine in sequenza dei fogli non fosse identico a quello poi deciso nella versione a stampa.
Questo non fa che confermare l’ambivalenza e l’ambiguità di quelle immagini, che non possono vivere di vita separata, ma nello stesso tempo hanno una concatenazione narrativa non casuale, ma al contempo non obbligata.
Uno stratagemma che Max Klinger decise volontariamente o inconsciamente, per lasciare a se stesso - e a chi osserva - la più ampia libertà alla fantasia creativa, nel sorvegliato abbandono alle alchimie magiche e turbate dei sogni e alle avventure romanzesche dell’immaginazione subliminale.
Diversi sono i piani di lettura del Guanto. Ad esempio alcune scene sono osservate dal punto di vista dello spettatore esterno, altre dal punto di vista del protagonista che sogna. Alcune sequenze (o meglio sobbalzi di immaginazione) annunciano con piccoli segnali ciò che subito dopo, o più tardi accadrà. Quello che prima è apparentemente disperso o assorbito nell’insieme, avrà poi ruolo di protagonista. Sia Klinger che la donna infatti sono già presenti nell’inquadratura iniziale, ma ce ne accorgiamo solo se procediamo a ritroso dalla seconda scena alla prima. Anche il mostro, che nella penultima tavola irrompe definitivamente di forza, compare seminascosto già nella quinta (Trionfo), mascherato tra i riccioli di acanto che simulano le onde cavalcate dal cocchio guidato dal guanto-clitoride.
Abbiamo parlato pur con qualche dubbio di sequenze – ed il Guanto per certi versi sembra proprio un film, o magari anche un “nobile”, straordinario fumetto – ma soprattutto viene in mente quel ritmo narrativo e associativo apparentemente sconclusionato e assurdo tipico dei sogni, dei quali lo psicanalista ricerca una logica d’interpretazione sondando nell’inconscio e vagliando indizi anche secondari e insignificanti, ma altamente rivelatori. E il doppio punto di vista al quale poco prima accennavamo sembra proprio quello dello psicanalista e dello psicanalizzato. Oppure anche un processo di autoanalisi, lucida, ironica, che si avvale di compiacimenti allegorici e splendidamente estetici. Queste interpretazioni e inevitabili proiezioni “a posteriori”, non sono tuttavia da ritenersi infondate, considerato che la parafrasi sul guanto nasceva in un momento in cui si stavano sviluppando in Francia e in Germania le prime conoscenze scientificamente rilevanti sul mondo dei sogni. Gli artisti, a detta degli stessi scienziati, rivestivano un ruolo di precorritori in materia, ma Klinger, che prestava molta attenzione alla propria sfera onirica, è molto probabile che abbia ricavato spunti per le sue strategie figurative e definizioni simboliche (il guanto come feticcio sessuale, il suo moltiplicarsi, ingrandirsi e deformarsi, la presenza ossessiva dell’acqua, il mare e l’ostrica come simboli e attributi della femminilità, mentre i cavalli e il mostro con le ali che vola via della maschilità, il desiderio-ripulsa, l’annidarsi dell’orrido nel meraviglioso ed i connotati sadomasochistici di tutta la storia) dalle ricerche sui sogni operate dai contemporanei studiosi pre-freudiani, come Albert Scherner (Das Leben des Traumes, Berlino 1861), Alfred Maury (Le somneil et les rêves, Parigi 1878), Hervey de Saint-Denis (Les rêves et les moyens de les diriger, Parigi 1867) e Friedrich Theodor Vischer (Der Traum, 1875, che offriva tra l’altro un’analisi penetrante del processo con cui il sognatore si abbandona alle proprie immagini rispecchiandovisi, con spunti poi sviluppati e applicabili anche alle teorie estetiche). E’ un momento particolarmente fertile nel quale l’elemento visionario romantico ha uno scatto verso l’espressione del linguaggio simbolico, alimentato dall’interesse per l’approccio scientifico al mondo dei sogni. Nei medesimi anni vedrà la luce anche Dans le rêve (1879), album litografico di un altro grande simbolista, Odilon Redon, anch’esso concepito come ciclo di immagini in sequenza.
A differenza di Redon, che si esprime in un linguaggio fantastico già molto deformato e alieno, Klinger non viene mai meno a quel disegno veritiero, analitico e preciso che rende particolarmente ambiguo e intrigante l’irrompere dell’immaginario e dell’irreale nella realtà visibile e concreta. Aspetto particolarmente amato dai suoi principali esegeti a posteriori, Giorgio de Chirico in primis, e dai surrealisti, in particolare Max Ernst che nei suoi collages ricreava quelle associazioni bizzarre e stranianti delle quali il Klinger del guanto rappresentava un insuperabile e formidabile esempio - oltrettutto coevo alle fonti ottocentesche utilizzate dai montaggi ernstiani.
Colpisce nel Guanto anche il gioco variato di stile (eclettico, pur nella tenuta costante di precisione ed esattezza del segno) che fa da contrappunto alla trasformazione dei differenti campi visivi. Dalla prima scena, ampia, tranquilla e impostata secondo ordinati canoni di compostezza, si passa allo scatto dinamico della seconda: instabile, malcerta e pericolosa. Il punto di vista è contrario e guida in profondità verso quella natura scura e frondosa che prima si vedeva solo riflessa sui vetri dell’edificio situato sul lato opposto della pista. Nel terzo foglio l’immagine si assottiglia e si riduce ancora, ritagliando uno spazio figurativo che va sempre più in profondità, collegando il mondo esteriore con quello interiore, come una porta serrata che si apre sul sogno. Dalla tempesta del quarto foglio, dove lo scafo della barca biancheggia sull’oscurità del cielo e del mare con drammaticità cromatica, si passa poi al rischiararsi e all’ampliarsi di nuovo del campo visivo nella quinta scena: ornata, preziosa, luminosamente concepita sullo stile lineare dell’arabesco, memore dei delineati neoclassici o del limpido purismo dei disegni allegorici di Philipp Otto Runge. Lo stesso sobbalzo lo si prova passando dalla settima tavola – dove la sfera dell’incubo è ancora descritta con i mezzi “canonici” nel filo della derivazione grottesca e protoromantica alla Goya e alla Füssli – all’ottava, nella quale si vola tutto d’un fiato in direzione di una spaesante e improvvisa modernità concettuale che avrebbe colpito forse più di tutto i metafisici e i surrealisti.
Infine ci viene da sottolineare l’aspetto musicale del Guanto. Klinger, che dedicò i Salvataggi di vittime ovidiane a Brahms e si ispirò alla sua musica nella Brahmsphantasie, che eseguì ritratti ai più grandi musicisti del suo tempo, come Beethoven, Wagner e Liszt, da deciso assertore dell’unità di tutte le arti realizzò col Guanto la sua sonata, il suo rondò, la sua piccola preziosa sinfonia, con l’andamento ciclico, con i movimenti, i Leitmotives, gli adagi, i vivaci e gli allegretti.
Emanuele Bardazzi, marzo 2001
Il testo è pubblicato in Max Klinger - Un Guanto, portfolio con 10 cartoline, Galleria dell'Incisione, Brescia 2001