1 Febbraio 1999
di Franco Fanelli
Quando Andrea Martinelli ci mostra per la prima volta i disegni nel suo studio di Prato, i fogli sono meticolosamente impilati e incastonati nella bisellatura del passe-par-tout a Ph rigorosamente neutro. Oggetti più che fogli, da maneggiare senza traumi, fanno pensare ai frammenti di un codice scampati a chissà quale catastrofe, e poi amorevolmente serbati con l’ansia delicata di un misterioso bibliotecario. Fanno pensare al tempo; fanno pensare, chissà perché, agli strati impossibilmente sfogliati da un monoblocco di livelli successivi; oppure alla terra sgranata di una sinopia. Insomma, fanno pensare a qualcosa che è accaduto «prima», in uno strato di cui quei volti sono un antecedente. Riportano alla luce qualcosa che non c’è più. La mente comincia a ronzare: ecco Holbein, che nel «Ritratto della moglie con i due figli» conservato nel Kunstmuseum di Basilea affida a una carta soprammessa le velature ultime del volto più adulto; e poi, ci si perdoni, ci vengono in mente certi fotogrammi di uno sceneggiato televisivo anni Settanta sulla vita di Leonardo, laddove si narrava del dramma della Battaglia di Anghiari, di quei fuochi accesi in una sala (roba che la retorica di un artista concettuale ne farebbe già un’opera) per far fondere i pigmenti di un encausto impossibile, e poi del disastro dell’esperimento: e allora l’Opera Perduta veniva rievocata a botte di flash violenti sui disegni preparatori, e in sottofondo le urla dei combattenti, i gemiti, i nitriti, i tonfi, il clangore dei metalli... Richiudiamo il blocco dei disegni e si fa silenzio e si torna a Torino.
Poi, dopo le suggestioni, viene l’ora della lettura.
E conviene, allora, ripartire dalle riflessioni di Vittorio Sgarbi che qualche mese fa aveva scelto qualcuno di questi fogli a completamento di una personale di Martinelli. E registrare quel «passaggio dalla metafìsica alla fìsica», «dall’esistenza all’essenza», transito colto in tutte le connessioni storiche e culturali che non è certo il toscano Martinelli a denegare(1).
Noi pensiamo all’«esistenza» come condizione del dipingere di Martinelli, laddove la figura pare affiorare organicamente dal fondo della tavola, quasi che il rito dell’evocazione si svolgesse per sottrazione di materia, capovolgendo la modalità fisica del dipingere, come se l’immagine preesistesse all’azione che la scopre. E pensiamo all’«essenza» per dire il contrario, che sulle carte è la sismografìa del segno a «depositare» il minerale sgretolarsi della grafite e «ordinare» l’immagine. E se la tavola è sedimento, la carta, tanto è calibrato l’appuntamento tra il segno e il suo referente «reale», si fa filtro ingiallito dal tempo e dal vissuto e schermo tra disegnatore e soggetto. La tipologia dei soggetti suggerisce riferimenti all’arte della fisiognomica in un duplice binario che tocca Leonardo e Messerschmidt; la stessa successione delle tavole rimanda a un compendio scientifico sulla mimica facciale. L’agilità gestuale ci porta invece verso l’automatismo descrittivo del virtuoso che disegna «di memoria», ed è per questo che non crediamo si faccia un torto alle virtù di Martinelli proponendo una percezione di questi segni alla luce di una processualità, almeno virtuale, che scocca nel momento in cui il dominio del gesto combacia perfettamente con l’essenza della figura evocata: non era così che accadeva, con esiti di altissima astrazione, in certi fogli che, pure quelli, ci riportano a un qualcosa che non c’è più, quei perduti affreschi del coro di San Lorenzo presso Firenze?
Carta, s’è detto, come schermo: se lo è, da quale punto vengono «proiettate» le immagini(2)? Dalla potenza dell’oggetto raffigurato o dal magistero del soggetto raffigurante? Oppure, in queste fantasie anatomiche più vere del reale, non potrebbe trattarsi di reciproco flusso osmotico tra soggetto e oggetto? Certo è che queste carte ricercatamente consunte e sensibilizzate dalle patine di scritture e accidenti antichi, solcate dai depositi del tempo, nella loro posizione di tramite tra memoria e percezione diventano, da fossili, membrane innervate e pulsanti sotto la lieve, crudele, impietosa e carezzevole punta che ricompone in cifra, riaprendola, la cicatrice del tempo.Franco Fanelli, febbraio 1999
- V. Sgarbi, Martinelli, catalogo della mostra, Galleria Poggiali & Forconi, Firenze, ottobre 1998.
- Il termine «proiettare» ci... proietta indietro nel tempo, verso il porto di Amsterdam nel XVII secolo: un flash-back il cui protagonista è il «Rembrandt del Reno» nell’immagine affidataci da Filippo Baldinucci. Rembrandt intento a frugare nei magazzini alla ricerca appassionata di carte Giappone o India, di quella nuance che, sposata all’impalpabilità del velo cartaceo, potesse meglio recepire, esaltandola, quella sua «bizzarrissima maniera ch’egli inventò... tutta sua propria, né più usata da altri, né più veduta», emessa anzi proiettata dai segni intagliati e bruniti nel rame.
Il testo è pubblicato in Andrea Martinelli. Disegni 1996-1998, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 1999