La Galleria dell’Incisione presenta per la prima volta a Brescia una mostra di opere di Carol Rama, una delle maggiori artiste italiane del Novecento, Leone d’Oro alla carriera alla 50a Biennale di Venezia 2003.
La mostra è costituita da 13 opere uniche, 24 incisioni e 2 cartelle. Le opere uniche sono degli anni dal 2001 al 2004, mentre le incisioni scelte vanno dal 1993 al 2005 e ripercorrono i motivi figurativi ricorrenti nella vasta produzione dell’artista: la Mucca Pazza, le Malelingue, i Cadeau.
La mostra è organizzata con la collaborazione della Galleria Franco Masoero di Torino. Catalogo con testo di Franco Fanelli.
Carol Rama è ben altro che una delirante naïf intenta all’elaborazione di un’autobiografia per immagini. Ha ricevuto l’educazione classica degli artisti torinesi della sua generazione, che nel bene o nel male confluivano nello studio di Felice Casorati (quando per temperamento e ricerca le sarebbe stato senz’altro più prossimo il visionario e maudit Spazzapan, mitteleuropeo di stanza a Torino, l’antitesi casoratiana per eccellenza, come lo è stato Mattia Moreni).
Dagli anni Quaranta ha attraversato da protagonista le principali neoavanguardie ed è difficile, a fronte di un’analisi formale delle sue opere, ascriverla tout-court alla categoria degli anticlassici. Quanto meno, ha saputo far convivere le due anime, irrazionalità e “ragion compositiva”, istintualità e straordinario magistero tecnico.
Ma quando le è stato chiesto (da Corrado Levi, altro esemplare suo interprete) che cosa resterà della sua arte, ha risposto che le sue opere piaceranno soprattutto a chi ha sofferto; più volte ha parlato di follia come “causa” del suo fare. Ha definito suo maestro il peccato. Ha descritto l’esercizio dell’arte una pratica autoterapeutica.
Eppure Carol Rama non è naïf almeno quanto non lo sono stati Artaud, Gottfried Benn o Schiele; come loro, caso mai, ha interrogato il dolore e vi ha scoperto quei fremiti di libertà e quei frammenti di bellezza che soltanto vede chi sa porre alla Sibilla le giuste domande (a costo di immedesimarsi con essa), sa trarre il significato di risposte capaci, se eviscerate, di spiegare l’enigma della sofferenza e, com’è compito degli artisti, sa metterne a parte chi vuol stare a vedere e capire.
È sintomatico che nei suoi fogli una delle simbologie più ossessive, la lingua, abbia assunto col tempo la forza di un ideogramma di libertà capace di squarciare le ombre nelle quali una città a volte afflitta dall’ipocrisia spesso ha preferito ovattare il male.
Dal testo introduttivo di Franco Fanelli