31 Gennaio 2016

Francesco Casorati. Non si dicano favole! - Presentazione

di AnnaMaria Chiara Donini

Iniziamo da un aneddoto, non perché abbia strette pertinenze col nostro discorso, quanto ad esso sintonico o tangente.

Da ragazzo ho aiutato spesso mio padre, collaborando con lui. Per il finale [del Fidelio alla Scala] mio padre aveva realizzato una scena dominata da un castello, era tutta in un bianco e in un nero molto forte e molto contrastato, su cui si stagliavano i costumi colorati dei protagonisti e del coro. Il regista, che era tedesco, ed era molto noto, trovava questa scenografia troppo violenta nei suoi contrasti e voleva che quel nero diventasse grigio. Ci furono discussioni accese, ma alla fine il regista la spuntò e il nero diventò grigio. Tuttavia mio padre, che era molto arrabbiato, nella notte che precedette la prova generale prese me, avrò avuto una quindicina d’anni, e due aiutanti, rientrò di soppiatto nel teatro e insieme ridipingemmo tutto quel grigio in nero che tale poi rimase[1].

Fra le molte qualità possedute da Casorati, l’affabulazione deteneva un ruolo predominante; ciò non solo per sua ammissione[2], ma anche da parte di chi l’ha incontrato o ne ha studiato l’opera.

Uomo acuto, colto, discreto e generosissimo, Francesco era un costruttore, un marinaio, un maestro, e soprattutto un artista-pittore estraneo alle regole del mercato, ai cori urlanti dei circuiti espositivi, sempre vigile rispetto a ciò che intorno a lui andava accadendo anche se disomogeneo alle sue scelte stilistiche[3].

Se occasione concedeva di ascoltarlo mentre raccontava (delle esperienze condivise con gli amici artisti - i torinesi Campagnoli, Chessa, Aimone, Saroni, Tabusso, Soffiantino e Ruggeri per esempio -, della sua famiglia, della madre pittrice[4] e più spesso del padre[5] - uno fra i massimi esponenti della cultura figurativa internazionale del Novecento), eri condotto a vivere in prima persona la sua esperienza, calandoti in una realtà così concreta da sentirla tua. Se eri presente alla rievocazione di quello stesso episodio, non potevi credere di annoiarti perché ogni volta – anche se in gioco c’erano gli stessi personaggi – la storia poteva avere scatti diversi, minimi cambi di rotta, tagli o aggiunte, sicché il ricordo procedeva su sentieri inaspettati. Alla domanda: “Te l’ho già raccontato?”, non ho mai risposto in modo affermativo, certa che la rievocazione avrebbe potuto comunque appagare le mie attese.

Ora, quell’abilità o predisposizione a giocare con le parole messa in tavola per creare nuovi rivolgimenti (sempre accompagnandola con un’espressività corporea essa stessa consentanea e indispensabile) la ritrovo – seppur ribaltata – nei suoi lavori. Nella sua produzione, vastissima e complessa (che ha visto assunti mezzi espressivi diversi: dagli acquerelli alla tempera, dall’olio all’acrilico alle incisioni con rare incursioni nel mondo della “plastica”), l’artista non documenta e tantomeno rappresenta una storia, ma offre allo spettatore la possibilità di costruirsi una narrazione del tutto originale proprio perché personale.

Memore forse delle collaborazioni teatrali con Sergio Liberovici[6], Casorati frena la carica narrativa limitandosi a mettere in posa attori e contesto, e a proporre un titolo semplice ma icastico; ciò facendo offre indicazioni - un canovaccio minimo, una sceneggiatura schematica - spingendosi anche a fornire, in modo discreto, delle istruzioni d’uso. Credo a questo serva il filo rosso – costante in molte prove grafiche e dipinte – che lega gli attori in scena, e che, cambiando destinazione d’uso, da medium relazionale può trasformarsi in vettore architettonico, ovvero strumento necessario per la definizione della terza dimensione.

Le opere di Casorati prevedono sempre “spazi corretti, giusti, ben equilibrati[7]; il compimento della loro architettura diviene quindi presupposto imprescindibile alla loro realizzazione. Ma com’è affrontato e soprattutto com’è risolto questo problema che l’autore dice essere centro d’attenzione principale del suo pensiero artistico? Attraverso modalità apparentemente diverse: una moltiplicazione di piani sulle coordinate prospettiche con la penetrazione nel campo dell’immagine di tipo ortogonale (Navi su mari rettangolari del 2007, qui esposto); con la sovrapposizione di quinte che invitano all’esfoliazione della tela e quindi all’avvicinamento pausato della profondità[8], con l’accordo delle due soluzioni in un gioco prospettico raffinatissimo che tende a moltiplicarsi all’infinito[9], e infine con l’uso del colore che partecipa alla tridimensionalità attraverso le velature, la giustapposizione di pennellate o, nel caso delle incisioni, di stratificazioni di inchiostrazioni che danno come risultato l’affioramento dell’immagine dal supporto[10].

All’interno di questi ingegnosissimi meccanismi del pensiero architettonico stanno i protagonisti delle storie di Francesco Casorati - meglio a questo punto dire delle nostre narrazioni - i quali, pur abitando il mare, così come la terra o il cielo, vivono in un mondo che non è realistico, e tantomeno privo d’identità figurativa.

Porti e navi; alberi e città; pesci, uccelli e pochi altri emblemi appartenenti a un bestiario addomesticato, sono riconoscibili come astrazioni iconiche; sono il prodotto di una messa fra parentesi del dato naturalistico a favore di una sintesi della forma, di un’unità schematica.

Come leggere, infatti, le figure che abitano il mondo pittorico di Casorati? Non si tratta di semplici rappresentazioni che riproducono l'oggetto reale; neppure di modelli primordiali - frutto di un immaginario onirico e fiabesco – ovvero forme archetipiche che mediano un vissuto perduto e ancora desiderato. Possiamo pensare piuttosto alla creazione di un'immaginazione produttiva, a uno schema inteso come l'insieme delle regole che presiedono alla costruzione dell'immagine.

Percorrendo il processo di oggettivazione dell'esperienza, ciò che appare nello spazio pittorico non è più (o non è solo) la forma indefinita che rimanda a una percezione primitiva e indeterminata; non è ancora il fenomeno oggettivato, frutto di una sintesi intellettuale, offerto alla riflessione del giudizio estetico. Ciò che appare è un modello schematico (non una semplice schematizzazione) con cui l'immaginazione raccoglie delle classi di oggetti da offrire al pensiero concettuale; è una modalità di mediazione tra l'intelletto, incapace di piegarsi alla concretezza del reale, e l'intuizione, chiusa nel suo mutismo.

Rispetto a questa funzione “intellettuale” dell'immaginazione, ciò che appare originale in Casorati è che al completamento di tale lavoro costruttivo sia coinvolta la facoltà dello spettatore. Lo sforzo volto a produrre uno schema, a darne una paradossale rappresentazione, non appare di per sé risolto; il significato non si dà come già conchiuso e in attesa di un semplice riconoscimento. L'immagine-schema offerta allo sguardo è quella che l'immaginazione dell'artista offre a un processo costruttivo, è quella fase pre-lavorata che l'autore avvia, ma che solo il fruitore può continuare e portare a compimento. Il mondo pittorico di Casorati è popolato da schemi che vengono consegnati alla spontaneità dello spettatore affinché trovino il loro naturale decorso intellettuale e non, come è stato detto, un loro regresso infantile. Questo rigore regolativo con cui l'immaginazione fornisce la sua immagine all'intelletto dell’osservatore, questo procedimento schematico con cui l'immaginazione non riproduce l'immagine di un oggetto percepito, ma genera un concetto empirico è ciò che trattiene l'immagine casoratiana dal regredire alla sfera inconscia di un figurativismo magico in cui il significato sollecita una narrazione libera e, a tratti, nostalgica. Ciò che è richiesto allo spettatore è il contributo formale teso a far convergere spontaneamente lo schema sul concetto, è l'apporto alla costruzione di uno spazio esperienziale rigoroso e complesso. In questo senso la ricerca di Casorati appare come il tentativo di costruire uno spazio inconcluso, non perché persegua volutamente le vie del non finito, ma in quanto offre al riguardante l'occasione di partecipare alla vita dell'opera, di abitare nella sua apertura e contribuire al suo processo costruttivo. Opera aperta in quanto procedimento in corso d'opera; opera in attesa di un concetto che ne traguardi le sollecitazioni ad una comprensione intellettuale.

Ne vediamo conferma indiretta nell'uso di un grafismo che, a un certo punto della ricerca, trova posto nell'opera. Nuovamente, anche in questo caso, ci sentiamo di escludere tanto l'ipotesi di una scrittura ornamentale (che ricerca la purezza del tratto, o che si limita a decorare uno spazio vuoto), quanto l'idea di una parola che racconta una storia, di un dire didascalico funzionale all'immagine. Ancora una volta si deve pensare, piuttosto, alla necessità di scandire la serie dei piani che definiscono lo spazio. Quel grafismo condotto su orizzontali ininterrotte va ricondotto a una precisa modalità costruttiva: producendo un'interazione formale con l'immagine contribuisce a definire i piani spaziali; generando una dialettica tra la fluidità impressa alla visione, che scorre ininterrotta, e la forma della figura, che richiede invece uno sguardo più fermo e riflessivo, lo spazio pittorico acquista lo spessore del testo che, consegnato al lettore, esige d'essere sfogliato dall'occhio e compreso nella sua struttura compositiva.

Va da sé, allora, che la complessità dell’opera di Casorati non può portarci al mondo fiabesco, agli emblemi infantili, a facili piacevolezze di giochi decorativi ai quali troppo spesso è stata condotta e non può che farci scrivere: “per cortesia non si dicano favole, ma narrazioni iconiche dall’identità stilistica inconfondibile il cui ultimo approdo è il divertimento, ovvero – secondo etimo – un altrove che è luogo di sola Pittura!”

[1] Emilio Jona, Dialogo fra uno scenografo e un curioso, in Francesco Casorati (catalogo e mostra a cura di P. Levi, Torino, Sala Bolaffi, 22 settembre-12 novembre 2000), Torino, 2000, p. 122.

[2] Casorati stesso ne rilevava l’importanza tanto da evidenziarla in un suo intervento titolato Autobiografia, in Daphne Maugham Francesco Casorati. Un incontro di vita e arte III (catalogo e mostra a cura di Pino Mantovani, Rivarolo Canavese, Villa Vallero, 16 aprile 2011 - 12 giugno 2011), Moncalieri, 2011, p. 60.

[3]Per – credo – mia inclinazione naturale ho sempre avuto un rifiuto agli schemi di moda operanti in pittura, tutti i vari “ismi” che sono passati nella mia lunga vita mi hanno sfiorato, a volte affascinato, ma credo di aver quasi sempre fatto liberamente le mie scelte poetiche. Non ho mai amato in modo particolare la pittura pittoricistica, sono sempre stato un costruttore d’immagini; la mia maniera di dipingere è pensando e non operando emotivamente sul quadro.” Nota di Francesco Casorati apparsa in occasione della mostra Francesco Casorati finzioni della realtà (mostra a cura di A. Benzi e M. Rosci), Cavatore, 2010.

[4] Daphne Maugham, Londra 18 dicembre 1897 - Torino 1982.[5] Felice Casorati, Novara 1883 - Torino 1963.

[6] Dal 1963 e sino al termine degli anni Ottanta, Casorati collaborerà alla realizzazione di diversi progetti teatrali propostigli dall’etnomusicologo e drammaturgo Sergio Liberovici intervenendo sulle scenografie e gli apparati teatrali. L’importanza dell’esperienza con Liberovici è ricordata nella conversazione con Emilio Jona, Dialogo…, cit., in cat. cit., Torino, 2000, pp. 119 – 125.

[7] Autobiografia, cit, in cat. cit., Torino, 2000, p. 62.

[8] Per esempio: Paese e stendardi, 1998, olio su tela, 170 x 120, in Francesco Casorati (cat., cit.), Torino, 2000, p. 92; Il cavallino verde, 2000, olio su tela, 150 x 200, id., p. 95.

[9] Suggeriamo il bellissimo (ci sia concesso) Il pesce di legno, 1988, olio su tela, 200 x 150, in Francesco Casorati (cat., cit.), Torino, 2000, p. 77.

[10] L’albero sulla collina, 1992, acquaforte e acquatinta su zinco, mm. 497 x 357, in Francesco Casorati (cat., cit.), Torino, 2000, p.114.

AnnaMaria Chiara Donini, gennaio 2016

Il testo è pubblicato in Francesco Casorati. Non si dicano favole!, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2016

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