14 Novembre 2007

Raccogliere una forma 
attorno ad un pensiero…

di Duilio Cambellotti

Sono nato nel 1876. Sono un autodidatta.

C’è un’età in cui l’universo nostro si limita in lunghezza e larghezza alle pareti di una camera e in altezza al di sotto di un tavolo o al di sotto di una sedia. Ho la memoria viva e lucida di quel periodo della mia vita. Questa memoria contribuisce in me vecchio, a non invecchiare.

La casa di via dei Filippini è una casa che ho abitato dai due ai cinque anni. Mio contatto col mondo esterno era la finestra che dava sulla via. Devo molto a quella finestra che, essendo in un primo piano piuttosto basso, mi permetteva di veder bene e con una prospettiva insolita facce, persone e cose… un po’ dall’alto, ma non tanto che sfuggano i dettagli, per cui vien fatto di dire che in tal modo le cose si guardan dentro. Si acquista così una conoscenza che può giovare in seguito se vorrete parlare ed operare servendovi della forma delle cose.

Allora Roma era traversata da animali e persone che venivano dalla campagna.

Le capre, nelle mattinate primaverili, per la vendita del latte. Era quasi abituale il passaggio di barrozze tratte da bovi bianchi dalle lunghe corna, più raro quello delle vetture a cavallo.

E da quella finestra io potevo vedere quegli animali dalla parte della groppa, il che suscitava tutto un complesso di impressioni, che mi inducevano ad osservazioni che non mi sarebbe stato dato di cogliere se io fossi stato a terra, di fianco o di fronte all’animale.

Quando io abbia cominciato a fare qualche sgorbio non saprei precisare. Ma tra i cinque e i sei anni l’animale prediletto, il cavallo, era già oggetto da parte mia di tentativi grafici, certo molto primitivi.
Un giorno mio padre aveva dato ordine di sgombrare la camera da letto per farla imbiancare di nuovo. Il pavimento, salvo una piccola parte, era completamente sgombro. Non ebbi esitanze, provvisto di un pezzo di gesso abbastanza grande, mi proposi di fare una cosa di eccezione: un cavallo che occupasse l’intiero pavimento. Debbo avere faticato parecchio, ora inginocchiato, ora carponi. Rammento perfettamente che cominciai dalle orecchie ad una estremità del pavimento e finii cogli zoccoli alla estremità opposta.
Non ho frequentato scuole, non ho avuto maestri, ma fin da ragazzo ho visto accanto a me gente che operava con strumenti e materie. Assistevo alla trasformazione che le materie subivano sotto quegli strumenti, e mi cimentavo ad operare imitando, desideroso di ottenere lo stesso risultato.

Questo procedere che ho praticato ancor giovanissimo e che mi ha assistito anche in seguito, mi rese in poco tempo padrone di varie tecniche: la modellazione con l’argilla a far terrecotte, quella con la cera a preparare modelli per fusioni, quella del gesso a plasmarlo a tempo che non indurisca, a rifinirlo una volta indurito; così lisciare e pulire il bronzo fuso col raspino e con l’unghiolo e ritoccarlo col cesello.
Vedevo ancor più frequentemente mio padre che per necessità dell’artigianato quasi artistico che egli praticava, disegnava progetti di decorazione ornamentale per soffitti, per pareti, per mobili. Seguivo quel lavoro e con una certa avidità ne spiavo il procedere rapido. Sembrava che il disegno scaturisse dalle sue mani, al punto che mi pareva cosa facile.

Da ciò sedotto cercavo di rifarlo; ma le difficoltà per arrivare alle perfezioni cui egli giungeva mi irritavano e mi obbligavano a fare e rifare con pertinacia e pazienza.

Acquistai così un’altra tecnica, quella della grafica, non grafica in se stessa, ma sottoposta ad uno scopo immediato, quello cioè di raccogliere una forma attorno ad un pensiero, fosse esso elementare, fosse elevato.
C’era in me, l’ho già detto, una naturale tenacia, si potrebbe dire cocciutaggine perché volevo riuscire a fare quello che altri facevano e fare anche meglio. C’era inoltre un grande desiderio di stare fuori casa, un desiderio di aria aperta, di sole, di campagna e tale desiderio faceva sì che io alternassi il lavoro con delle gite campestri a piedi anche lontano da Roma, a raggiungere luoghi remoti e sconosciuti per me e non frequentati da altri.
Erano come tante scoperte di nuove terre.
Ancora oggi, vecchio, godo di ciò.

È naturale, anche per quanto ho detto sopra a proposito della grafica, che io non mi recavo in campagna con la cassettina dei colori e il cavalletto a tracolla; non potevo concepire questa copia della campagna ormai già divenuta arcadica ed accademica: tanto valeva portare una macchina fotografica. Sentivo che quelle cose ancora avvinte alla zolla avevano una nuova vita, una nuova filosofia e che l’opera d’arte era il mezzo perché fosse sviscerata e mostrata. Un semplice appunto, una linea, una nota anche scritta, era la raccolta preziosa di quella o di quell’altra gita. Era poi in quella nota che si concentrava il pensiero per germogliare e sviluppare una visione e poi la mano a fissarlo sulla carta.

Mezzo secolo fa l’espressione di agro o campagna significava per i più squallore dolore, febbre. Nel concetto pessimista c’era verità perché tutta la plaga del Lazio che si estende tra Civitavecchia e Terracina, la vera campagna romana, era preda della malaria, scarsa d’abitatori, mal coltivata e dominio di animali pascolanti. Bastava varcare le porte di Roma per trovarsi in questa solitudine. Tori monumentali dalle corna immense, dalla cervice eretta e nera, vaccine candide, cavalli dal mantello sfavillante di rame, bufali bronzei dal corpo velloso e incrostato di fango. Il sole, spostandosi nel suo corso, filtrava quell’aria grave di vapori mortiferi e involgeva quelle forme in una atmosfera di fuoco e d’oro.

In quella solitudine l’incontro dell’essere umano non era frequente e prendeva forme tipiche e solenni. Il pastore alla testa del branco scortato dal cane inseparabile, avvolto nel mantello ampio come una toga antica, alternava il passo lento a stasi di immobilità statuaria. Più solenne e sinistramente misterioso il guardiano a cavallo. Il suo mezzo di locomozione era la cavalla maremmana dai crini scomposti, dall’occhio serpentino, dal passo breve e ovattato che più che avanzare sembrava scaturire da sottoterra come un essere infernale, insieme al suo cavaliere, erto sull’alto arcione tutt’uno coll’animale. Il bracciante agricolo, in realtà il vero eroe di questo ambiente tragico, appariva ed appare come un elemento di fondo. Curvo sotto l’opera della vanga, solo o in gruppi di pochi, profilati di luce sull’orizzonte. La luce del tramonto li smagrisce e li rende spettrali. Non è raro incontrarli sulle strade a torme, insieme alle donne e ai bimbi, sotto carichi inverosimili d’arnesi di lavoro, sacchi di masserizie e di stoviglie. Incedono a passo cadenzato ed elastico.

Ho praticato la campagna romana come artista e molto come gregario di una nobile opera di redenzione, capitanata da gente illustre per valore e pietà, Le Scuole per i Contadini, che furono determinanti nella lotta contro la malaria e l’analfabetismo nell’Agro Romano.

Di questa campagna, al pari di tanti più egregi di me, ho inteso la malia intensa formata di sogni primordiali, di tristezza e d’abbandono. Ho negli occhi superbe visioni. Ho potuto valutare la realtà nel bello, nel bene, ma anche nel male che era molto. Ho visto la donna camminare con passo fermo, rigida, indifferente, attesa al lavoro di calza e recare sul capo un lugubre involto, una cassetta di legno con su una corona di fiori di campo: suo figlio!

La formula “arte” cara oggi più che ieri a molti artisti, non è stata seguita da me. Una tela che contenesse forme e colori, tali da produrre un piacevole accordo per gli occhi e nulla più, una plastica che esprimesse masse e atteggiamenti per piacere allo sguardo, sono cose che non ho fatto. Una sincera ispirazione della natura e dei fatti umani, questo è quanto ha sorretto e governato il mio operare, e ho ricercato in ogni opera un contenuto espressivo che dicesse del buono, del nuovo e dell’utile, e parlasse chiaro e semplice, e rappresentasse la realtà nel movimento e nel divenire.

L’avere accolto per tempo parecchie tecniche che si integravano tra di loro perfezionandosi sempre di più, mi obbligava ad una varietà di applicazioni.

La scultura, nella quale ho iniziato la mia educazione d’artista. La pittura, spesso la pittura parietale sia a tempera sia a buon fresco. Ho decorato ambienti disegnando ed eseguendo l’arredo in tutte le sue manifestazioni... vetrate. Ho coltivato la scultura metallica di piccole dimensioni, la medaglia... la ceramica.

Mi avveniva di concentrare l’opera nel breve andito quadrilatero di una pagina di libro o svilupparlo nello spazio di un cartellone stradale che richiedeva l’applicazione cromatica. Il quadro aveva fatto il suo tempo. Il quadro non aveva la forza di penetrazione e tanto meno quella della diffusione che poteva essere offerta dalla stampa, dal libro. Per decorazione del libro io intendo la collaborazione dell’artista all’allestimento del volume, cominciando dalla scelta della carta e dei caratteri, alla esecuzione dei fregi e disegni, fino alla determinazione del modo più acconcio per riprodurli. Tanti sono i volumi illustrati da me. E da questo fu facile passare ad una forma di grafica più atta alla diffusione perché moltiplicabile, la xilografia.

L’origine di Roma e gli Etruschi e ancor prima la guerra di Troia, Enea, Ulisse, miti, leggende, furono sempre temi a me cari e riaffioranti nelle mie opere, come cavalli e navi, che presero presto posto stabile nel mio spirito. Sono esseri... anche le navi sono esseri, che amo con trasporto e foga come si può amare una donna, forse perché sono esemplari di bellezza assoluta? Non credo! Per esempio il cavallo è un animale squilibrato, è una botte su quattro stecchi. Il cavallo in fatto di squilibri è simile al corpo femminile; sono corpi fatti di contraddizione, ma noi li amiamo e in questo amore tante volte c’è disperazione e tragedia.

Libro, cartellone, xilografia, manifestazioni essenzialmente popolari, m’hanno facilmente condotto in seguito a qualche cosa di più intimo con l’anima popolare. È cosi che ho varcato la ribalta. Ho accettato, ogni volta ne avessi avuta l’occasione, dì partecipare quale allestitore di scene e costumi a spettacoli teatrali.

In un allestimento teatrale idealmente perfetto, tre cose sono contemporanee e strettamente collegate tra loro. Ed è mio convincimento incrollabile che debbano tutte uscire dalla stessa mente e dalla stessa mano: il costume, lo scenario e il cartello che dovrà annunziare lo spettacolo al pubblico.

Prima di tutto, bisogna entrare nel soggetto ed apprestarsi a trattarlo come se si avesse l’incarico di fare l’illustrazione del dramma. Poi si passerà ai particolari, primo fra tutti fisionomia, aspetto e colore, tipico di ogni personaggio. Il lavoro dovrà essere tale che alla fine il peso del costume corrisponda al peso morale del personaggio nell’economia del dramma. Dunque, poi... questo personaggio, come si presenta sulla scena? In alto… in basso... viene da sotto?... traversa la scena? Dopo di lui, entrerà la moglie, da dove?… da sinistra o da destra?… E così via. Voi capite che la disamina di questi movimenti nel loro livello scenico determina la plastica della scena stessa.

La tendenza è di creare un vero grembo drammatico proprio all’azione che si rappresenta. Quindi è per tempo che ho lasciato i fregi, i capitelli ornati e ho preferito muraglie ciclopiche, rocce incise, protomi gigantesche rudemente tagliate.

Un tipo di scena a grandiose fattezze, superfici levigate, colorazioni assolute.

La scena è cosa che si deve guardare con sommo piacere: deve essere una cosa bellissima, non deve distrarre. AI contrario deve preparare, acclimatare, aiutare infine lo spettatore alla completa comprensione del dramma. Allora egli sarà preso nella morsa dell’azione e del dialogo e seguirà fino alla fine, ignaro che lo stato di grazia, che lo fa adagiare in quella vicenda e gliela rende accessibile, lo deve a tutto quel complesso di cose che egli ha guardato, sì, insieme all’azione del dramma, ma che non ha visto. Lo spettatore ha varcato a ritroso i millenni e ignaro assiste al miracolo.

Nel ceto degli artisti io sono stato sempre un irregolare, ma l’opera mia non s’è limitata solo ad un appagamento della vista, ho cercato di dire e comunicare qualche cosa di più. Naturalmente in quanto ho fatto, ho cercato di non essere né vecchio, né seccatore, né retore.

Duilio Cambellotti

Testo dal DVD di Lucilla Salimei Autodidatta. Duilio Cambellotti Racconta se stesso, Archivio dell’opera di Duilio Cambellotti, 2005, tratto da Duilio Cambellotti, Teatro Storia Arte, a cura di Mario Quesada, Palermo, 1999

Il testo è pubblicato in Duilio Cambellotti, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2007

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