13 Aprile 2013
di Giovanna Caterina de Feo
Fa' che io non sia una rupe ma acqua e cielo
La nostra incursione tra gli scultori attivi nell’Italia centro settentrionale dal 1915 al 1945 (1) non può che iniziare dall’affascinante opera di uno dei maggiori esponenti dell’arte del suo tempo, il milanese Adolfo Wildt (Milano 1868 - 1931), che ha tanto influito su molti scultori dopo di lui. La sua Vittoria, 1919, di marmo e bronzo dà inizio all’esposizione mostrando il deciso abbandono degli stilemi ottocenteschi operato dall’artista il quale, in linea con la sua complessa formazione simbolista, vuole qui piuttosto esprimere l’idea della Vittoria e concentra tutta la propria attenzione sul volto della donna, perfettamente di profilo, ieratico e spirituale quasi fosse quello di una santa, pulito e rifinitissimo secondo la prassi paziente cui l’artista sottopone la materia, curata con formule note a lui soltanto.
In quest’opera l’intero corredo iconografico con cui generalmente si rappresentava la Vittoria - corona d’alloro, panneggio e paludamenti vari - viene sintetizzato. Sono eliminate persino le ali, che pure esistono ancora nella “Vittoria” da cui questa discende, quella di Palazzo Berri – Meregalli a Milano, finemente cesellate, attaccate al breve corpo solcato da una scia di stelle di bronzo dorato che danno l’illusione di veder volare la figura nel firmamento.
La nostra scultura sembra piuttosto ritornare dall’ignoto spazio, depurata, rimasta solo anima, essenza spirituale eterna, che non può più avere né peso né consistenza: contiene l’idea del volo, l’idea delle ali, suggerite dalla posizione del volto e dall’urlo muto che sembra uscire dalla bocca semiaperta.
Non sono meno interessanti la placca in bronzo Il risparmio, 1923, realizzata per il centenario della Cassa di Risparmio delle province lombarde e un disegno, il bozzetto del biglietto d’invito per una mostra presso la Galleria Pesaro di Milano nel 1919, opere in cui sono ancora assai evidenti i richiami allo Jugendstil di prima della guerra, in atto negli arredi per la villa di Doehlau al tempo del sodalizio con Rose (2).Libero Andreotti (Pescia 1875 – Firenze 1933), altra grande personalità, dopo l’esordio nel 1902 si trasferisce a Parigi nel 1907, per una lunga e formativa esperienza durante la quale entra in contatto con la plastica di Rodin e di Maillol sulla quale innesta spunti orientaleggianti, provenienti dalla conoscenza della scultura esotica e dalla visione dei balletti russi allora molto in voga che gli consentono di superare la lezione Liberty del suo esordio, stimolandolo verso l’elaborazione di un personalissimo stile. Tornato in Italia nel 1914, dà vita a figure femminili mai auliche e distaccate ma interpreti di un’umanità vera alle prese con i piccoli gesti della quotidianità, magistralmente trasformati in atti eterni, secondo Carpi condotte “senza più abbandoni al piacevole, senza un particolare meno utile alla perfezione stilistica dell’opera rifinita e raffinata con squisito amore…” (3).
La scultura che si presenta, Maria e Maddalena dolenti ai lati della croce, 1930, è uno dei tre bozzetti realizzati per la cappella Borletti a Milano (4) eseguiti qualche tempo dopo la conversione religiosa del 1921, e prelude a L’Annunciazione del 1931 oggi nella Galleria d’Arte Moderna di Firenze. Il gruppo, che per il modellato sintetico e arcaicizzante e per l’intensa spiritualità di cui è portatore sembra ispirarsi alla scultura lignea del medioevo, è caratterizzato dalla rappresentazione di due potenti e contrapposte manifestazioni della medesima sofferenza: a sinistra della croce la Madonna ha un’espressione chiusa di rassegnata accettazione, interamente compresa nel proprio dolore, ed è raffigurata come se avesse già versato tutte le lacrime nel fazzoletto, che tiene nella mano inerte appoggiata alla croce; a destra la più giovane Maddalena è scapigliata e semivestita ed è, invece, implorante con un gesto aperto e interrogativo, proiettato verso il cielo in una muta e umanissima domanda sul perché.
La figura di Arturo Martini (Treviso 1889 – Milano 1947) quasi “incarna” gli anni presi in esame, tanto i suoi dati anagrafici sembrano andare di pari passo con le più importanti tappe storiche del suo tempo (si pensi ad esempio al contributo offerto a “Valori Plastici”, alla Metafisica, a Novecento Italiano). Una grande capacità narrativa ha consentito a Martini di dare vita a opere immortali, intimamente antiretoriche, animate da un autentico respiro poetico, qui rappresentate da tre piccole sculture realizzate intorno al 1927, in uno dei momenti più felici della sua ispirazione, quando fa della terracotta il materiale d’eccellenza nella serie dei “teatrini”, oggetti di piccole dimensioni immersi in una magica e quasi metafisica atmosfera.
A questo gruppo di opere appartengono senza dubbio quelle in mostra: San Sebastiano e Le Collegiali. Il primo affronta un tema ripreso più volte dall’artista, fino all’ultimo periodo nel 1946 – 47 in cui la morbidezza naturalistica del modellato, mostra una riflessione sul quadro omonimo di Antonello da Messina. Con Le Collegiali, invece, Martini riprende l’indagine già intrapresa con Altri tempi, nel 1908, quando sotto l’influenza di Medardo Rosso (5) si interrogava su come affrontare in scultura un gruppo di personaggi en plein air. In antitesi con l’opera di Rosso, dove la superficie si sfaldava nella resa luministica dell’atmosfera, l’artista risolve mettendo in atto un effetto opposto, posizionando in circolo le ragazze strette l’una all’altra di spalle, con i dorsi simili a colonne che creano un’impenetrabile massa plastica: un artificio compositivo che diventa spunto poetico per raccontare il sentimento di inesplicabile complicità e amicizia di un gruppo di adolescenti.Attilio Selva (Trieste 1888 – Roma 1970), triestino attivo a Roma, è idealmente vicino ad Arturo Martini, col quale condivide sia l’attitudine a “far grande” che le iniziali passioni giovanili per il partito fascista, per l’arte egizia, per le potenti statue di Ivan Mestrovic, per il piccolo paese di Anticoli Corrado e per Villa Strohl-Fern, la villa degli artisti a Roma (6).
Tuttavia queste loro affinità elettive non producono esiti simili: quelle di Selva e di Martini sono e saranno due visioni molto diverse, volte ad elaborare ciascuno per proprio conto una visione monumentale. Caratterialmente poco incline ai proclami enunciati al di fuori delle opere, in modo simile a quanto fanno altri artisti della sua generazione, egli non fa “gruppo” e si tiene al margine, scontroso, tenacemente coerente e indipendente.
In mostra si presentano la Signora Carena (ovvero Mariuccia Chessa, sorella del pittore Gigi e sposa di Felice Carena), eseguito qualche tempo dopo la prima versione in gesso patinato che è del 1920 e il Ritratto di Mafalda, all’incirca del 1935. Si tratta di due ritratti in cui è evidente l’attenzione per la statuaria classica e rinascimentale: il primo è una scultura ritenuta dalla critica del suo tempo tra gli esempi più belli della ritrattistica contemporanea, nella quale il delicato volto di bronzo della donna forma un contrasto cromatico con l’abito, tradotto nel variegato e prezioso marmo cipollino. Il secondo è, invece, un bronzo a patina scura, sul quale la luce scivola con franchezza, creando un contrasto di chiari e scuri disposti con equilibrio tra il volto, la capigliatura e l’abito della donna, che è percorso dalle linee gravi del panneggio, increspato dai segni brevi e perpendicolari che rifiniscono il bordo della scollatura, da quelli mossi più liberamente, appena incisi sulla superficie del busto, dove creano un effetto di delicata decorazione. Opere simili fanno dire a Remigio Marini che “...Il ritrattista intimista trasformante i caratteri in meravigliose creazioni di vita e di stile, la vince di certo a nostro vedere sul pur mirabile inventore di monumenti e d’allegorie...” (7).
Di poco più anziano è il carrarese Arturo Dazzi (Carrara 1881 – Pisa 1966), figlio di un imprenditore del marmo, il materiale al quale rimane legato tutta la vita. Dazzi, prima di Selva scopre la propria inclinazione verso la scultura monumentale e per il mondo classico, soprattutto a causa dei suoi primi studi, fondati sulla lezione dei maestri del 400 e del 500 per i quali, dopo essersi aggiornato su Meunier, Bourdelle e Vela, negli anni Venti viene spontaneamente a trovarsi così allineato con quanti attuavano la ripresa del classicismo.
In mostra il bellissimo Busto di bambino, 1920 ca., un’opera che appartiene alla sua statuaria migliore, in cui l’acuta osservazione del dato reale si coniuga con l’altissimo senso del mestiere: grande manipolatore del marmo, egli possiede una capacità tecnica fuori del comune che gli consente di riprendere perfettamente il volto del bimbo, il quale ha un’espressione quasi imbronciata, come se fosse stato richiamato dal gioco ed ora fosse lì, obbediente ma infastidito dal noioso compito della posa.
Coetaneo di Dazzi è il ferrarese Arrigo Minerbi (Ferrara 1881 – Padova 1960), attivo soprattutto nell’Italia settentrionale, tra Ferrara, Genova e Milano (nel capoluogo lombardo tra i numerosi monumenti si ricorda la porta dell’Editto di Costantino nel Duomo realizzata tra il 1937 e il 1948) e infine a Roma, città in cui a causa delle persecuzioni razziali trova rifugio.
Anch’egli non sfugge al destino che muove molti di questi autori verso forme classicheggianti, in lui mediate dall’attenzione naturalistica per i particolari, come si evince dal bellissimo marmo grigio Bambino in fasce, 1920 - 1930, che sembra quasi un Bambino Gesù modulato sullo stile di un maestro del Quattrocento, nel quale la grande cura per la finitura della materia rende ancora evidente l’antico incontro con Wildt. Segue poi il busto in gesso di Leopoldo Marangoni aviatore, 1942, nel quale lo scultore riprende un soggetto già sperimentato anni prima per il ritratto dell’aviatore e poeta Rodolfo Fumagalli, oggi nel Museo d’Arte Moderna di Ferrara. Qui il modello è atteggiato in posa classica, ma la cura dei particolari quali l’espressione intensa e il viso concentrato, le sopracciglia leggermente aggrottate, l’ampio colletto di pelliccia e il morbido panneggio del camiciotto, gli permette di sfuggire alla facile retorica allora imperante e di restituire l’umanissimo volto di un uomo.
Provengono dall’area lombarda l’allievo di Wildt Werther Sevèr (Milano 1898 – 1940) con il bronzo Balilla, 1930, una scultura esposta con un certo successo alla Biennale di Venezia nello stesso anno (8), Riccardo Piter (Castel D’Aviano (PN) 1899 - ?) con il marmo Bambino, 1944, che qui sembra risentire anche lui dell’influenza del maestro milanese, e il più anziano Timo Bortolotti (Darfo, Brescia 1884 - 1954), scultore oggi raramente presente nelle mostre d’arte, che dopo i primi anni trascorsi a Brescia cresce nell’ambiente milanese. Di lui si presenta il bronzo La risaiola, 1936, un’opera che nel soggetto prescelto tradisce il tema della sua prima esposizione, avvenuta nello stesso anno alla Prima Mostra d’Arte “In risaia” a Mortara (PV), nella quale indagando la poetica della vita rurale ritrova l’antica matrice del verismo lombardo.
L’ambiente transalpino è poi testimoniato dal cosmopolita Ernesto De Fiori (Roma 1884 – San Paolo del Brasile 1945) con un sentito Autoritratto, 1930 ca., nel quale si evidenziano il rifiuto per la deformazione espressionistica del soggetto e l’interesse per l’individuazione dell’anima del personaggio - che in questo caso è sé stesso – elementi che costituiscono il tratto peculiare della sua vena creativa.
Una menzione particolare meritano i Due leoncini di Felice Tosalli (Torino 1883 - 1958), scultore di temi mitologici e zoomorfi che si forma a Parigi e poi a Torino, dove lavora nello studio litografico di Doyen. A partire dagli anni Venti inizia la collaborazione con la manifattura “Lenci” per la quale crea numerosi modelli di piccole sculture animaliste, operando una scelta di campo e di stile che gli consente di mantenersi appartato, di non confondersi mai nelle fastose opere commemorative del suo tempo e di creare oggetti in cui l’animale diventa spunto per raccontare un mondo di giocosa sensibilità e poesia.
Il mondo animale e la vita rurale sono al centro dell’ispirazione di Duilio Cambellotti (Roma 1876 – 1960), attivo soprattutto a Roma e nell’Italia centro – meridionale. Poliedrica figura di artista, autentico homo faber, è stato scultore e ceramista, decoratore, architetto, scenografo nonché pittore, con i XXV della Campagna romana (9).
La formazione affonda le radici nella plastica di Bistolfi e nel gusto Liberty che presto supera elaborando propri e personalissimi motivi, ispirati anche dall’antico mondo etrusco e dall’arte popolare del Lazio. Tali spunti sono evidenti nel Vasetto del grugno, 1921, un’originale invenzione di vaso a forma di testa di maiale, decorato con quattro porcellini a rilievo che nella forma mostra di discendere dalle brocche etrusche, e nel Buttero, 1918 – 1919, uno dei soggetti prediletti da Cambellotti il quale, oltre a questa scultura di terracotta, eseguirà sul tema anche una litografia e una medaglia. Il modello in gesso del Buttero nel 1919 viene recensito da Francesco Sapori che nota come la figura si ispiri all’antica figurazione del Centauro e rileva il suo formidabile impianto che denota “…la volontà di riassumere, col minor numero di piani, in una linea soltanto, il gruppo serrato del cavalcante e del cavallo” (10). Infine Cambellotti scultore civile è qui bene rappresentato dal Guerriero del Tripode, 1919 – 1922, il modello definitivo in cera rossa e legno per il Monumento ai Caduti di Terracina inaugurato all’inizio degli anni Venti.
Per rimanere in ambito romano e nel vasto gruppo di artisti che tra le due guerre hanno eletto come luogo di vita e di studio la Villa Strohl-Fern, oltre ai già nominati Martini e Selva, si ricordano il faentino Ercole Drei (Faenza 1886 – Roma 1973) e il veneziano Attilio Torresini (Venezia 1884 – Roma 1961), figlio di un marmista e allievo di Antonio Dal Zotto. Torresini è certamente tra i più vicini alla svolta “purista” dei pittori della prima scuola romana: portatore di una poesia intima e garbata, nei ritratti e nei nudi configura una struttura compositiva libera sia dai residui delle stilizzazioni Liberty sia – cosa rara a quel tempo - da ogni tipo di retorica monumentale. In mostra si espone la Fanciulla dormiente, 1929 ca., un rilievo di bronzo che ritrae il volto della moglie Angela Colasanti e richiama il precedente marmo a tutto tondo La Dormiente, 1926, esposto alla prima mostra del Novecento italiano a Milano (11) e la Bagnante, 1939 ca., una spigliata e moderna figurina di donna, la cui patina verde del bronzo è trattata come se fosse un oggetto di scavo.
Più versatile Drei, che deve molto della sua formazione alla giovanile frequentazione del Cenacolo Baccarini nella natia Faenza, il quale è scultore, pittore, ideatore di ceramiche di gusto classicheggiante e disegnatore dal tratto deciso e indagatore, come testimoniano la Figura maschile, 1924, uno studio per il monumento ai Caduti di Porretta Terme (BO) e gli studi di figure femminili: La Commedia, una delle quattro Maschere, 1928 (ossia la Commedia, la Musica, la Danza e la Tragedia), proposte alla Biennale di Venezia nel 1928.
A questi importanti autori fanno da corollario altri, non meno noti ma un poco più giovani: Marino Marini (Pistoia 1901 – Viareggio 1980) che affronta una tematica a lui cara con il disegno Cavallo e cavaliere, 1941; il suo quasi coetaneo Francesco Messina (Linguaglossa, Catania, 1900 - Milano 1995) il quale, in questo primo periodo, con il bronzo Ritratto di bambino si inserisce pienamente nel clima del “Ritorno all’ordine” e, infine, l’altoatesino Othmar Winkler (Brunico 1907- Trento 1999) con Primo gemito, 1930, una pregevole scultura in legno sulle gioie della maternità, eseguita ed esposta alla sua prima mostra romana, tenuta nel 1931 presso il Circolo della Stampa estera, dove la figura flessuosa è concepita in unico blocco con il basamento e manifesta un riflesso intimista di ascendenza nordica (12).
Chiude idealmente la mostra una Vittoria (1934) di Angelo Biancini (Castel Bolognese 1911 – 1988), un artista dalla molteplice produzione che spazia dall’esecuzione di piccoli oggetti domestici di ceramica alle grandi sculture - di lui si ricordano i gruppi bronzei sul Ponte della Vittoria a Verona, 1937-39 e il monumento a Grazia Deledda a Cervia, 1956 – che raggiungerà la propria, piena, felicità espressiva nelle opere del dopoguerra. Questa scultura mostra ancora evidente il debito a suo tempo contratto con il proprio maestro Libero Andreotti, in particolare con la Donna che fugge per l’asse asimmetrico della figura e per la trattazione della materia.
È una fortunata coincidenza che siano due opere di soggetto simile, una rappresentazione della “Vittoria”, ad aprire e chiudere la mostra. Se è vero che il Vittorioso di una parte non è che lo Sconfitto dell’altra, queste due opere possono essere prese a pieno titolo come rappresentative di un’epoca, e la “Vittoria” di Wildt (classe 1868) e quella di Biancini (classe 1911) mostrano entrambe la traccia del cammino percorso e possono essere prese a pieno titolo come rappresentative di un’epoca di grande travaglio che ha espresso una felice stagione della scultura italiana.
Giovanna Caterina de Feo, aprile 2013
Note:
1) dato il lungo arco temporale preso in considerazione è necessario premettere che le personalità qui proposte sono alcune tra le tante possibili e sicuramente non tutte quelle che si sarebbero volute.
2) Rose aveva stabilito con Wildt un contratto con cui si riservava il primo esemplare di ogni scultura. A Doehlau, nella Prussia orientale egli aveva creato un luogo straordinario, centro di una corte di artisti, a cui Wildt collaborò con oltre quaranta sculture e oggetti d’arte decorativa dagli anni Novanta del XIX secolo al 1912, (cfr. P. Mola, Dramma, simbolo e astrazione nella scultura di Wildt, in C. Pirovano, Scultura italiana del 900. Opere, tendenze, protagonisti, Milano 1993, pp. 78 – 88)
3) A. Carpi, Lo scultore Libero Andreotti, in “L’Esame”, n. 3, Milano 1939, pp. 198 – 227.
4) secondo la scheda di Claudio Pizzorusso che accompagna l’opera, in quell’occasione l’artista propose tre diverse soluzioni i cui gessi preparatori si trovano a Pescia presso la gipsoteca Andreotti. Anche se la nostra scultura non fu la prescelta successivamente lo scultore ne fece fare due fusioni che tenne una per sé e la seconda – la nostra – diede al banchiere nonché autore di poesie e romanzi, Lodovico Toeplitz de Gran Rey e alla di lui moglie Maria Crispi.
5) successivamente, nella sua arte ormai antimedardiana, il problema era stato accantonato (cfr. Arturo Martini, catalogo della mostra a cura di C. Gian Ferrari, E. Pontiggia, L. Velani, Milano, Fondazione Stelline. Museo della Permanente 5 novembre 2006 – 4 febbraio 2007, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna 25 febbraio – 13 maggio 2007, Milano 2006, p. 142).
6) Villa Strohl-Fern a Roma era una sorta di cittadella dell’arte fondata nel 1879 dall’artista alsaziano Alfred Strohl-Fern che ospitava, previo il pagamento di un modesto affitto, artisti di tutte le nazionalità e di tutte le propensioni artistiche. (cfr. Artisti a Villa Strohl-Fern, catalogo a cura di G. C. de Feo e G. Raimondi, Museo di Villa Torlonia, Casino dei Principi, Roma 11 marzo – 17 giugno, Roma 2012)
7) R. Marini, La mostra triestina di Attilio Selva, in “Le Tre Venezie”, n. 2, Venezia febbraio 1939.
8) “Werther Sever ha la netta interpretazione d’una viva testina di balilla” (cfr: U. Nebbia, La XVII Biennale di Venezia II, in “Emporium”, vol. LXXI, n. 426, Bergamo 1930, pp. 340 – 341)
9) i XXV furono un gruppo di artisti accomunati dall’amore per la campagna romana che divenne anche soggetto prediletto delle loro opere. Costituito nel 1904 da Coleman, Carlandi, Ferrari, Cellini, Morani, Ferretti, Biseo, Gioja e Parisani, ai quali presto si affiancarono alcuni altri (così in definitiva furono di più di XXV), tra i quali Cambellotti, noto con lo pseudonimo di “Torello”. Il gruppo fece la sua ultima esposizione nel 1950 (cfr. La campagna romana de “i XXV”, mostra a cura di N. Cardano e A.M. Damigella, Roma, Accademia Nazionale di San Luca, 10 marzo – 24 aprile, Roma 2005)
10) F. Sapori, Artisti contemporanei, Duilio Cambellotti, in “Emporium”, n. 290, Bergamo, Febbraio 1919, pp. 75 – 85.
11) Novecento Italiano, catalogo della mostra d’arte, Milano, Palazzo della Permanente, febbraio – marzo, Milano 1926, p. 106
12) nella scheda di Alessandra Imbellone che correda l’opera è rilevato come Carlo Boskowits vi scorgesse l’influenza delle stilizzazioni espressioniste dell’austriaco Albin Egger-Lienz, protagonista della Secessione monacense (cfr. C. Boskowits, Austellung Othmar Winkler, in “Alpenzeitung”, Bolzano, 19 giugno 1931).
Il testo è pubblicato in Scultura italiana 1915-1945. Dal fascino del Liberty al recupero della classicità, catalogo della mostra, Galleria dell’Incisione, Brescia 2013