Bresciaoggi, 17 marzo 2005

«Sensuali influenze del Giapponismo»

di Giampietro Guiotto

Articolo sulla mostra Giapponismo, Galleria dell'incisione

Un percorso di similitudini tra Hokusai e il Liberty

Fino al 30 aprile alla Galleria dell’Incisione
Un’esposizione che rivela in pieno lo stretto legame tra arte europea di fine’800 e iconografia nipponica

Dal secondo Ottocento le suggestioni esotiche dell'arte giapponese pervasero la Francia attraverso riviste, negozi d'arte orientale, disegni e stampe, incisioni e xilografie, e dalla Francia si esteso via via a gran parte dell'Europa. Era stato merito di un comandante americano di marina, Matthew Perry, aprire nel 1854 i rapporti con il Giappone dopo circa duecento anni di isolamento. In quei duecento anni il Giappone aveva dato vita ad un'arte ricca per temi, elegante e sontuosa per forme, leggera e illustrativa, che aveva preso il nome di Ukiyo-e, cioè pittura del mondo fluttuante. Niente di metafisico si nascondeva in questa denominazione che sta invece a designare un gusto in veloce trasformazione, che si manifestava nei temi che i nuovi ceti cittadini giapponesi emergenti mostravano di prediligere: scene di genere della vita quotidiana fuori e dentro la città, feste all'aperto per i ciliegi primaverili in fiore o per le foglie d'acero in autunno, presenze erotiche della «città senza notte», cioè dei quartieri di piacere, rappresentazioni di arti e mestieri, gesti, abitudini e persino manie di questi ceti, che cercavano un proprio affinamento in un mondo in rapida trasformazione. La bellezza femminile, soprattutto delle grandi cortigiane e delle donne di piacere, fu uno dei temi costanti della lunga epoca Edo, indagato dal grande Utamaro Kitagawa - che eccelleva nella raffigurazioni di sensuali immagini femminili a mezzo busto - fino a Genko Ogata, che, ancora al passaggio tra '800 e '900, si soffermava sulle piccole attività femminili della cura di sé, come accade nella xilografia presente in mostra, in cui il pittore sembra sorprendere nascostamente una bella donna nell'atto di acconciarsi. Questa discreta e ambigua intrusione nell'intimità femminile costituisce uno dei più interessanti e prolungati prestiti della tradizione pittorica dell'Ukiyo-e all'arte europea, che scopre il giapponismo proprio a metà '800 e lo coltiva dall'Impressionismo al Simbolismo, dall'Art Nouveau alle Secessioni. Così nella litografia dell'artista tedesco Hans Christiansen «L'Heure du berger»(1898), un'ignuda fanciulla è sorpresa mentre percorre un tortuoso sentiero di campagna cogliendo fior da fiore con gesto misurato ed elegante. Il suo corpo è reso come se fosse esso stesso un fiore, immerso nelle macchie allusivamente violacee di grandi papaveri. La sinuosità del Liberty, debitore per più di un aspetto al giapponismo anche come moda, si manifesta in più d'una delle opere di questa mostra bresciana. Accade, ad esempio, nella «Salomé» (1898) del pittore ceco Alphonse Mucha. Ma l'indagine intorno all'intimità femminile ed alle sue manifestazioni più private si legava nella cultura pittorica dell'epoca Edo all'interesse per la natura, una natura che, fin dai miti delle origini, era concepita animisticamente: fiori ed animali, rocce, fiumi, scogli e baie erano elementi considerati dotati di un'anima, cioè di vita pulsante. Questa vita naturale, che si manifestava in mille forme, era degna di essere ritratta come soggetto, non semplicemente rappresentata come elemento decorativo o di complemento. Dunque, una betulla, una roccia, un airone, una carpa racchiudono segreti della natura profonda, stimolano indagini che portano alla più varia rappresentazione dello stesso soggetto, vengono colti in momenti o atteggiamenti diversi, ognuno dei quali trattiene un segreto di vita. Corvi e pettirossi, galline e carpe, cerbiatti e tacchini affollano la mostra, a testimoniare una concezione della natura radicalmente diversa da quella che in Occidente emerse con le «nature morte», pure ricchissime di simbologie e rimandi nascosti. Immerse nel flusso della vita, segnate anch'esse dalla concezione animistica, sono anche talune località, come un antico bosco, una limpida cascata, un cammino innevato. Se le pietre e gli scogli sono presenze vive, la natura tutta è un grande corpo vivente, nel quale ogni elemento dispone di una sua aura. La pittura ha il compito di rendere viva ogni cosa naturale che pure appare insignificante, non degna di attenzione. Questa concezione integralmente animistica della natura emerge nitidamente anche in mostra, nella intensa xilografia «Il Fuji sul mare» del grande maestro K. Hokusai (1835) e, per influsso diretto, nell'opera paesistica «Dai Tauri» del mitteleuropeo Josef Stoitzner, attivo agli inizi del secolo scorso. Dei molteplici prestiti dell'arte nipponica a quella europea, due in particolare accomunano i pittori presenti in mostra: l'impalpabilità del segno grafico e la preziosa minuzia con cui sono ritratte figure e paesaggi. L'attenzione verso il giapponismo non fu dunque sollecitata soltanto dai temi che quell'arte svolgeva, ma anche dalla tecnica. Essa risultava profondamente diversa da quella invalsa in Europa: i pittori giapponesi, infatti, non usavano né colori ad olio, né chiaroscuro, non mescolavano né sovrapponevano i colori per ottenere nuove tinte e nemmeno cercavano sorprendenti effetti di luce. Tranne rarissimi casi, essi dipingevano su carte e su sete. I colori andavano disposti puri l'uno accanto all'altro, in campiture nitide e precise, accordate tra loro con grande perizia proprio perché non si poteva contare sul chiaroscuro. Questa tecnica conferiva ai dipinti giapponesi un'aria serena, lieve, limpida e senza contrasti, la stessa che ritroviamo in mostra nella tempera e acquerello «Ramo di ciliegio» del francese Jules Chadel. Il segno che il paziente artista nipponico tracciava con pennellini di consistenza diversa - da quelli morbidissimi di pelo di coniglio adatti per una linea leggera e sfumata, a quelli più robusti di lana di pecora, che lasciavano invece un segno vigoroso - non poteva più essere cancellato o corretto, perché rapidamente assorbito dalla carta o dalla seta. L'influsso e l'attenzione verso queste tecniche ricompare anche in un artista contemporaneo, pure ospitato in mostra, Davide Benati, con un acquerello del 1984 ed un'opera recentissima (2005), dall'allusivo titolo di «Canto». In quest'ultima opera, Benati ripropone i suoi sogni orientali, che si sostanziano in una pittura d'acqua, slavata, macerata, quasi corrosa dagli elementi naturali primitivi: l'acqua, la luce, l'aria, il fuoco.

Giampietro Guiotto, Bresciaoggi, 17 marzo 2005

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