29 Settembre 2012

Vivian Maier. Lo sguardo nascosto - Presentazione

di Silvana Turzio

Protetta da alti alberi e da una tranquilla facciata borghese una casa privata apre da molti anni sale e stanze per ospitare mostre di incisioni, disegni, fotografie.

La patina della cura per l’arte si adagia su tutto come la cera appena passata sui legni caldi di scale e pavimenti. Di mostra in mostra, i visitatori si riconoscono con lieta sorpresa mentre le immagini esposte si accostano via via in una collana di somiglianze e di parentele estetiche.

Ora approdano qui, dopo un lungo viaggio dagli States, le fotografie di Vivian Maier e trovano con facilità il loro posto come una persona di casa che si dirige subito verso la poltrona o lo sgabello adatti al peso e alla forma del corpo. La sensibilità di Vivian Maier è di casa.

Di Maier non si sa quasi nulla: è nata a New York a metà degli anni Venti, e come la maggior parte dei suoi concittadini, da genitori europei. È stata per molti anni – quanti non si sa — una nanny, una tata come si soleva dire sino a qualche anno fa. È morta senza eredi. All’ombra del lavoro ha scattato durante la sua vita di adulta migliaia di fotografie. La storia del loro ritrovamento è nota, meno noto il fatto che sia stato il sito Flickr.com a scatenare l’entusiasmo.

Chi erano i suoi genitori? Chi erano i suoi datori di lavoro? Chi ha amato odiato, desiderato Vivian? E da chi è stata amata, odiata, desiderata? E di questa donna, cosa ne ha fatto la vita? Qualcuno negli States starà senza dubbio facendo ricerche per saperne qualcosa di più, ma non è necessario riempire le caselle biografiche per cogliere il senso della sua vita. Basta ascoltare ciò che dicono le immagini.

Che il raccontare del fuori dica molto del dentro, che l’atto del guardare sia un’autostrada a doppio scorrimento è ormai cosa assodata. Ma che qui l’immagine simpatetica produca una ricchezza espressiva di qualità è una felice scoperta che riguarda la donna Vivian Maier in particolare e la storia della fotografia in generale. È certamente vero che il suo sguardo riprende la vita americana del dopoguerra, ma la realtà ripresa non basta per spiegare il fascino che esercitano le sue fotografie su tutti, esperti o ingenui, attratti dalla felice istantanea sul quotidiano.

Immaginiamo di vederla all’opera, entriamo nel visore della sua Rolleiflex. Le sue fotografie nascono da un ritmo emotivo. Sono indici puntati su ciò che rallenta in lei il battito delle ciglia, sulle forme del mondo che ne fermano il passo, sulle situazioni appena percettibili che provocano un diverso battito cardiaco, più accelerato o solo più sospeso.

Che abbia amato, odiato, desiderato, vibrato alla bellezza e seguito palpitante l’altalena delle vicende umane lo si capisce dalle sue immagini che scorrono come pagine di un diario intimo.

Vivian Maier ha viaggiato molto ma vede ovunque le stesse cose e nello stesso struggente modo, tutto in bilico tra due sentimenti e due modi di essere, attento e timido, partecipe e impotente, saggio e incisivo, empatico e pungente. Sempre ritroso, come per effetto di un sentimento di non appartenenza.

È curiosamente presente nei luoghi dei ricchi quando fotografa di spalle le belle signore con le mantelline di visone, è già lì (da quanto tempo?), emotiva ma fisicamente distante, quando coglie l’ingresso di un anziano debilitato aiutato dal poliziotto, empatica quando si abbassa ad altezza della bambina dal volto sporco e ne coglie lo sguardo imperioso che non si concede alla fotografa, divertita quando fotografa la nidiata di bambini stipata in macchina, lucida quando costruisce una rete di linee moderniste, ironica sul passante che si accompagna all’anatra al guinzaglio. Sempre a distanza, al limite tra il troppo e il giusto spazio.

Molte le domande su di sè che si sono accovacciate sul bordo del mirino spingendola a comporre autoritratti equilibrati, mai irriverenti e mai celebrativi, piuttosto riflessivi invece, come grandi punti interrogativi. A conferma di una ricerca femminile onnipresente nel mondo occidentale e per tutto il Novecento, questi autoritratti rivelano tuttavia qualcosa di molto personale. Il suo giovane volto felino avrebbe potuto dire una bellezza più irriverente se solo si fosse sbottonata un pò di più nel sorriso e nella camicetta a quadri, se solo si fosse concessa qualcosa. Così anche l’autoritratto della maturità rovesciato in ombra cinese con la mano teatralmente conformata a animale minaccioso, e così un altro, cupo, con ombre di corde nere a tagliare lo spazio sopra l’ombra del cappello dicono una solitudine conclusa e un sentire irridente.

Ricerche ulteriori potranno riempire i tanti spazi vuoti della sua biografia, ma non serviranno di certo a conferire più valore estetico o un senso più compiuto alla sua opera, perché sono le sue fotografie ad esprimere un’autorialità decisa.

Silvana Turzio, settembre 2012

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