11 Aprile 1995
di Valerio Terraroli
Il volto un poco imbronciato, la testa lievemente reclinata in un moto malinconico sottolineato dai lunghi occhi tristi, i grandi volumi cilindrici degli arti e del torso, il gesto indicatore, insieme incerto e perentorio, della piccola Venere vincitrice, ci conducono per la via maestra dell’espressione plastica di Tullio Cattaneo. Un’espressione che è uno stile personale e maturo, capace di innestare senza contrasti apparenti solidità plastica di ascendenza classica e volumetrie sintetiche di matrice moderna, attraverso un materiale come l’argilla che permette all’artista virtuosismi tecnici affiancati ad un’operatività manuale apparentemente semplice, o per meglio dire arcaica, che emerge dalle superfici talvolta scabre e incise, talaltra lisce e porose che con le sottili patine stese sulla terracotta donano alle figure variabili cromatiche continue.
L’interesse preminente per la figura umana ignuda si rivela in Cattaneo a partire dagli studi e dai bozzetti grafici, qui esposti in una piccola selezione, realizzati a seppia e a carboncino attraverso un ductus forte, incisivo, impegnato a fissare le linee essenziali delle anatomie e che non si attarda nei dettagli descrittivi o negli effetti atmosferici, ma al contrario rivela un’indiscutibile predilezione per la resa plastica del soggetto. Benché non si tratti, se non raramente, di bozzetti per opere scultoree, questi studi evidenziano una rigorosa scelta di campo la quale, ancor più, si esplicita nella serie dei bozzetti in creta, questi sì per la gran parte preparatori, nei quali l’artista fa confluire il rigore della costruzione anatomica con citazioni dall’Antico, peraltro non dirette ma puramente simboliche, e dalla secolare tradizione coroplastica italiana. Anche i temi prescelti hanno il sentore degli archetipi classici: il nudo maschile eroico, il nudo femminile come Venere o Saffo, il ritratto, e come tali sono trattati attraverso forme e soluzioni nelle quali è inevitabile riconoscere una ricerca di essenzialità arcaica vicina agli idoli pregreci delle isole Cicladi, come nel grande Nudo femminile, privo degli arti e della testa, la cui volumetria monumentale e insieme geometrica è filtrata attraverso gli esiti delle Avanguardie storiche e dalle masse organiche di Moore.
D’altra parte ricorrere a Moore, ma anche a Carrà, a Martini e alla produzione scultorea italiana negli anni Venti e Trenta, e a Giacomo Manzù, non svilisce l’attività di Cattaneo, ma al contrario aiuta a comprendere le profonde e ramificate radici del suo operare e delle sue scelte culturali, come del resto in un certo senso, giustificano il suo amore per la terracotta, per l’impiego parziale dei colori sulle superfici e per il modellato a volumi e piani compatti.
Le recentissime Grande bagnante con le gambe accavallate, e in atto di strizzarsi la treccia, la Piccola bagnante seduta, dal volto da bambina, infantile ed enigmatico, fermata mentre si tira le trecce, o la Bagnante seduta, priva delle braccia e acefala, il cui ricco panneggio che ne occulta le gambe ha il pondus di una Mater Matuta, giocano con il tema ellenistico della Venere Anadiomene, ripreso nella variante della Venere nascente dai flutti nella serie di terracotte del 1994/95, di vario formato, caratterizzate dal moto delle braccia e del torso che sottolineano l’emergere dinamico della figura dal piano di appoggio e nello stesso tempo l’energia, anche dolorosa e violenta, espressa nella nascita.
A questi nudi femminili fanno da contraltare tre terracotte più squisitamente classicheggianti: la già citata Venere Vincitrice, un Nudo sdraiato e una Figura con peplo di impronta picassiana, alle quali si possono connettere i busti femminili dalle nette volumetrie riprese nelle triangolazioni delle braccia sollevate sul capo e nelle cromie più decise sui volti e sull’epidermide. Al tema della Morte di Saffo infine l’artista ha dedicato alcune composizioni nelle quali il nudo femminile ridotto ad una massa compatta si abbandona, come un tuttuno, sul piano di uno scoglio: il volto quasi sparito, i capelli della stessa materia della roccia. Il senso tragico del mito e della vita umana passa attraverso le pose delle figure e le espressioni dei volti che nelle sculture di Cattaneo sono per la gran parte maschere ambigue nelle quali convivono stupore infantile, indifferenza, malinconia, sentimenti resi attraverso una formulazione fisionomica che partita da fonti esplicitamente arcaiche, com’è il caso delle grandi Teste maschili in terracotta intese come lacerti di figure monumentali, di statue onorarie antiche, di guerrieri barbarici, è giunta nella produzione più recente ad una formula espressiva più naturalistica, ma più intensa e vibrante come nel caso appunto delle Veneri.
Un interesse particolare riveste poi il tema del ritratto vissuto dall’artista con un grande senso di equilibrio tra i dati forzosamente individuali e realistici e gli archetipi tipologici del ritratto tagliato all’altezza delle spalle o del petto, nei quali le matrici classiciste, specie le fonti della ritrattistica in cotto e in marmo del secolo XV, da Mino da Fiesole a Donatello a Francesco Laurana, si sposano con il rigore volumetrico delle teste di Timo Bortolotti, di Arturo Martini, di Attilio Selva: di grande effetto sono ad esempio il Ritratto di ragazzo, del 1992, con le spalle spinte all’indietro o l’intensità del Ritratto barbuto, sempre del 1992.
Tuttavia l’aver scelto la strada dell’organicità e della naturalezza dei corpi o delle teste non ha escluso in Tullio Cattaneo un’esplicita tendenza alla stilizzazione, all’abbreviazione formale, ad una personale visione del primitivismo che è sempre sottesa nelle sue opere: talvolta emerge prorompente eliminando dettagli, parti anatomiche, volti, talaltra si acquieta al di sotto di superfici vibranti di segni e di patine verde-rame o rosate o biancastre. È una forza silente ma palpabile che parla attraverso i moti improvvisi di un volto, il ruotare impercettibile di un collo e lo sguardo attonito e triste di grandi e mitiche figure, le quali, nella quotidianità contemporanea riescono ad aprire, improvvisamente, gli orizzonti del mito.
Valerio Terraroli, aprile 1995