30 Ottobre 2012
di Claudio Cerritelli
Un’esposizione di opere di Bruno Munari comporta sempre la possibilità di sollecitare nuovi ancoraggi con la totalità del suo mondo creativo, con i nessi tra le discipline, confluenze tra eventi estetici e visioni scientifiche, punti di raccordo tra procedure analitiche e stimoli fantastici.
Le opere di questa mostra sono collegate agli aspetti fondamentali della metodologia d’invenzione di Munari, campo comunicativo che oscilla tra l’atto sperimentale e quello didattico, tra rigore mentale e sensibilità operativa, facoltà individuale e coinvolgimento del lettore come parte attiva. Incontrare il mondo di Munari significa attraversare soglie che conducono verso altri territori, ipotesi conoscitive che si susseguono in uno slancio ininterrotto, energie creative come fonti d’immaginazione che si rigenerano. I diversi orientamenti di ricerca comunicano un senso di fantasticazione che nasce direttamente dall’esperienza del fare, lontano dal controllo ossessivo della logica, mantenendo una fluidità di pensiero aperta a qualsiasi sorpresa.
La posizione di Munari è fortemente anomala nell’ambito della cultura visiva contemporanea, sia per la flessibilità conoscitiva che caratterizza le sue incursioni nelle varie discipline, sia per la costante critica delle convenzioni artistiche che mette in discussione il concetto stesso di artisticità. Costante è il rifiuto nei confronti della volontà di chiarire, di specificare, di spiegare a tutti i costi le ragioni dell’arte da parte degli addetti ai lavori, con conseguenze pericolose per il lettore: “una spiegazione molto esauriente – afferma l’artista- annullerebbe la funzione dell’oggetto creato invece per stimolare la fantasia”.
Del resto, Munari ha anche detto che “il più grande ostacolo alla comprensione di un’opera d’arte è quello di voler capire”, emblematica dichiarazione che affida alla fruizione estetica un compito ben più ampio di quello stabilito dai codici dell’arte, speranza di coltivare possibilità cognitive aperte a tutte le attitudini dell’umano sentire. Si tratta di una prospettiva sinestetica del comunicare che congiunge il visivo e il verbale, il tattile e il mentale, l’artificio costruttivo e il profumo naturale delle forme e dei colori. I risultati sono sorprendenti perché il progetto operativo di Munari non risponde mai a esigenze tecniche puramente applicative ma si modifica nel processo di manipolazione dei materiali e nella verifica della loro adattabilità all’idea preliminare.
Insofferente verso i vincoli specialistici, le opere-operazioni munariane rifiutano l’appartenenza a questo o a quel tipo di stile o di tendenza, ciò che conta è l’unità indivisibile dei saperi che esse comunicano, il confluire di specifiche valenze linguistiche attraverso meccanismi di reciproca trasformazione. Questa è la ragione per cui i modi del comunicare sono sempre vissuti come tramiti provvisori, nessuna fissità di ricerca è augurabile, anzi Munari è impegnato a tenere in equilibrio i diversi processi creativi, con altrettanta curiosità nel disegnare la copertina di un libro o nel realizzare una scultura da viaggio, delineare una forma immaginaria o progettare un oggetto d’uso, utilizzare la fotografia o la xerocopia in senso non prevedibile, con un rapporto del tutto personale con le invenzioni suggerite dai nuovi strumenti.
Fin dai primi anni Trenta, dopo un iniziale approccio in ambito futurista, Munari costruisce macchine aeree in relazione mutevole con le energie ambientali, organismi plastici che, da terra o direttamente sospesi in aria, mutano posizione, ritmo, luce: forme sensibili all’atmosfera della realtà.
Nelle “sculture da viaggio” egli sfida ironicamente la scultura tradizionale con cartoncini tagliati e modellati a tre dimensioni, invenzioni geometriche che rovesciano il peso in leggerezza, immagini di straordinaria semplicità formale ricavate dalla superficie quadrata, opere pieghevoli che si possono mettere in valigia e portare in giro per il mondo.
Basate su un diverso principio, ma sempre riconducibili all’uso del quadrato sono le forme concavo-convesse che Munari espone come oggetti da appendere a soffitto, in modo che possano oscillare nell'aria con tutta l’energia dell’imponderabile. Con la proiezione di una luce puntiforme esse mutano continuamente e si trasformano attraverso il gioco d'ombre portate sulla parete o sul soffitto, con effetti casuali e sorprendenti legati ai flussi luminosi percepibili in quello spazio e in quel momento.
L’ampiezza dei riferimenti plastici che ogni forma sollecita intorno a sé spinge Munari a trattare come “sculture” anche oggetti che concettualmente si pongono fuori del suo perimetro convenzionale. Le “forchette parlanti”, per esempio, sono intese come prolungamenti della mano, esse sono interpretate “senza nessun scopo pratico, solamente per far giocare la fantasia”, per reinventando gli oggetti d’uso attraverso percorsi istintivi e irrazionali.
D’altro lato, consapevole del diverso campo teorico in cui si muovono l’esperienza dell’artista e quella del designer - l’uno soggettivamente proiettato verso la costruzione di uno stile personale, l’altro attento alla progettazione estetica di oggetti funzionali- Munari ha via via rilevato l’inconsistenza della distinzione tra arte pura e arte applicata. In questo senso, egli ha proposto il concetto dell’arte come mestiere, del “designer come artista della nostra epoca”, operatore che risolve i problemi di comunicazione senza preconcetti stilistici, con un’infinita disponibilità a lavorare per i bisogni della società.
Il metodo non è una categoria chiusa, codice inflessibile, somma di precetti non discutibili, ma un insieme di opportunità che, volta per volta, guidano le scelte operative verso soluzioni funzionali al fatto che la “comunicazione deve essere immediata e precisa”. Un metodo, dunque, che non si sviluppa secondo un procedimento lineare ma attraverso un processo dialettico tra il pensiero intuitivo e la capacità di tramutare il progetto in evento permutativo, non escludendo la possibilità di modificare l’assunto iniziale.
Quest’atteggiamento si avverte anche nell’interesse per il libro come esplorazione delle sue valenze fattuali e concettuali, riflessione sulla sua leggibilità, sia dal punto di vista grafico sia da quello oggettuale: scelta della qualità tattile della carta, dei caratteri tipografici, del ritmo visivo delle iconografie, con attenzione persino alle tipologie della rilegatura.
Munari realizza i cosiddetti “libri illeggibili”, senza parole, fatti di carte di diversa consistenza, colore, dimensione, talvolta tagliate e cucite, manipolate e vissute al di là della logica standardizzata dell’editoria. L’idea è di sperimentare modi visivi di trattare il libro come percorso di lettura indipendente dal testo, per tale ragione la carta è già in se stessa fonte di percezioni che mutano in relazione alle sue diverse consistenze.Gli stessi formati non sono anonimi, individuano sequenze crescenti o decrescenti non solo attraverso alternanze di diversi colori ma anche con ritmi suggeriti dalle modificazioni di alcuni punti del foglio. Tagli verticali orizzontali e diagonali permettono di sfogliare il libro decidendo i tempi di lettura in prima persona, aprendo le pagine a caso, avanti e indietro, con infinito piacere nel trovare il proprio modo di lettura. Libri illeggibili, dunque, perché non hanno parole ma modulazioni astratte e contrappunti cromatici, senza registri referenziali, con azzardi percettivi dalla prima all’ultima pagina, continuo fluire della mente nel corpo delle immagini.
Nel ciclo dei “negativi-positivi” Munari esplora il dinamismo delle strutture ottico-percettive, entro la misura del quadrato si generano le ambivalenze tra lo sfondo e il primo piano, si tratta di dipinti geometrici a tinte piatte, dove i colori sono commisurati all’inesauribile effetto “avanti-indietro”.Questa grammatica percettiva è giocata sull’equilibrio delle opposte tensioni, da un lato l’analisi dello spazio dinamico, dall’altro l’esigenza di generare perturbazioni attraverso il processo di combinazione dei diversi elementi strutturali. Altre fonti d’invenzione sono individuate attraverso la tecnica del collage, così le “ricostruzioni teoriche di oggetti immaginari” pongono in evidenza gli aspetti plastico-cromatici di organismi visivi composti con materiali diversi. Il metodo è quello scientifico della ricostruzione di figure unitarie a partire dai loro resti frantumati, figure simboliche di un processo cognitivo che usa la poetica del frammento come traccia per ripercorrere il viaggio del pensiero verso l’origine dei suoi fondamenti creativo.
Come avviene sempre in Munari, anche in questo caso è la fantasia a condurre il gioco, a collegare il sapere scientifico al valore intuitivo dell’immaginazione, a trasformare il progetto analitico nell’incanto delle forme primarie, proprio perché il troppo pensare potrebbe confondere le idee.
Claudio Cerritelli, ottobre 2012
Il testo è pubblicato in Bruno Munari. Pensare confonde le idee, catalogo della mostra, Galleria dell’Incisione, Brescia 2012