D - La Repubblica, 6 ottobre 2010
di Irene Alison
Faceva la bambinaia, Vivian Maier, ma non usciva mai senza macchina fotografica. I suoi scatti sono stati ritrovati per caso a un’asta. E ora fanno il giro del mondo. Italia compresa
A nanny Vivian piaceva raccogliere le fragole. Inventare strabilianti avventure per le strade del vicinato. Adorava il gelato al caffè, e detestava quelli che si danno delle arie. Nanny Vivian aveva delle scarpe enormi, grandi come quelle di un uomo. E quando usciva, portava sempre una macchina fotografica appesa al collo. Chissà perché.
Sono grandi, oggi, i bambini di Vivian Maier. Quelli a cui ha fatto da tata per quarant’anni di lavoro, tra New York e il North Shore di Chicago, sono adulti da un pezzo. Ma hanno ancora negli occhi un po’ di stupore, quando adesso scoprono che la nanny dalle scarpe grosse e dall’accento francese, che preparava loro i sandwich e si preoccupava che conoscessero il mondo, era uno degli sguardi più acuti e poetici della sua generazione, protagonista negli ultimi anni di mostre in tutto il mondo, dal Chicago Cultural Center al London Street Photography Festival. E per la prima volta anche in Italia, alla Galleria dell’Incisione di Brescia, fino al 15 novembre 2012.Di lei, e della sua vita privatissima vissuta senza mai fare confidenze né mettere radici, restano solo i ricordi scoloriti di questi bambini cresciuti. E un tesoro di circa 150mila negativi, oltre 3mila stampe e migliaia di rulli di pellicola, ritrovati per caso nel 2007 in un’asta di Chicago.
Tata, viaggiatrice, straordinaria fotografa dilettante e compulsiva catalogatrice di ritagli di giornale, Vivian Dorothy Maier era nata nel Bronx il 1 febbraio 1926, da madre francese e padre austriaco. Nel 1930, a New York, insieme alla madre Marie (il padre Charles già sbiadito dalla trama piena di buchi della sua biografia), condivide un appartamento con la fotografa di origini francesi Jeanne Bertrand, nota ritrattista dell’epoca. È in quella casa che Vivian sente per la prima volta l’odore degli acidi dello sviluppo, preme per la prima volta il pulsante di scatto. Da quella casa Vivian esce - per andare in Francia con la madre - maneggiando una macchina fotografica, una Kodak Brownie con cui scatterà le prime foto: i profili della gente e delle montagne di Saint-Bonnet-en-Champsaur, la cittadina della Provenza dove si perde la storia della sua famiglia materna.Ma è in America, dove torna definitivamente nel 1951, che Vivian trova il suo sguardo. Trova anche un impiego da bambinaia, con cui, di famiglia in famiglia, si guadagnerà la vita fino alla vecchiaia. E una Rolleiflex, la macchina che la accompagnerà in ogni pomeriggio libero, in ogni scrupolosa esplorazione delle periferie e dei quartieri alti di New York e Chicago. Qui, tra il 1952 e i primi anni ’90, fotografa con vorace empatia la strada e i suoi eroi perdenti: uomini soli, coppie stanche, signore attempate in pelliccia o in ciabatte. Piccole distorsioni del quotidiano: un uomo su un cavallo nero che attraversa la città nel caldo di agosto, tutti e due con la pelle lucida di sudore. Un vigile che litiga con una mendicante, stringendola in un abbraccio da ballerini di musical. Un vecchio in camicia a quadri addormentato in spiaggia, come un relitto portato dal mare.
È riservata, Vivian. Non un amico o un amore di cui lasci traccia. Di sé non parla con nessuno. Ma coi suoi soggetti mantiene un dialogo intenso: senza mai guardarli negli occhi, la testa china sul pozzetto della Rolleiflex, usa la macchina come via di comunicazione con l’esterno. Fotografa come se non avesse altra scelta, per dare a ogni cosa il suo posto e per trovare il suo posto nel mondo. Fotografa per se stessa: non mostra mai il suo lavoro e non permette ai bambini di entrare nella camera oscura che allestisce nella propria stanza. Ma fotografa anche per dare un volto a se stessa: nel suo vastissimo catalogo di frettolosi passanti, gente dagli abiti lisi riemersa a fatica dalla guerra, compare, nei molti autoritratti, anche lei. Col cappotto pesante e lo sguardo vagamente interrogativo, i capelli corti tenuti di lato dal fermaglio e una leggera increspatura di sorriso, Vivian Maier fotografa per ricordare e per non essere dimenticata.
Del ricordarla, oggi, c’è chi ha fatto la propria missione: John Maloof, 29 anni, ex agente immobiliare che nel 2007 comprò per puro caso all’asta una scatola di negativi della Maier pagandola 400 dollari, è diventato il suo maggiore collezionista (un’altra parte dell’archivio Maier è nelle mani di Jeff Goldstein, dalla cui collezione provengono alcune delle foto esposte a Brescia), il curatore del libro che ne raccoglie molti degli scatti migliori (Vivian Maier: Street Photographer, ed. PowerHouse Books) e il più attento custode della sua memoria. «Quando aprii quella scatola», dice oggi Maloof, «non avevo letteralmente idea di cosa avessi tra le mani». Dopo aver cominciato a scansionare e a vendere su eBay alcuni dei negativi di Maier, Maloof ne ha scoperto il valore grazie a un post dal titolo What do I do with this stuff (other than giving it to you)? (“che ci faccio con questa roba, a parte farvela vedere?”) pubblicato su Flickr. L’entusiasmo generatosi in poche ore lo ha convinto a ricostruire l’opera e la biografia della Maier, comprando le altre scatole di negativi finite all’asta e tutti i pezzi della sua storia. Oggi, Maloof ha il 90% dell’archivio di Vivian oltre a una decina delle sue macchine fotografiche, più di cento tra film 8 mm e nastri audio, dozzine di cappelli di feltro, cappotti larghi e grosse scarpe, e scatole e scatole di articoli di giornale archiviati in raccoglitori di plastica. Il lavoro di Vivian è stato esposto in decine di mostre in tutto il mondo, con una calorosa accoglienza da parte della comunità fotografica, e Maloof continua a scansionare i negativi perché le vengano aperte le porte dei musei. «Trovo il suo lavoro tanto coinvolgente da desiderare che venga ricordata nei libri di storia della fotografia», ha detto di lei il celebre fotografo Magnum Joel Meyerowitz, co-autore di Bystander: A History of Street Photography.
«Non possiamo ancora dire se Vivian Maier sarà consacrata come una grande artista», dice Silvana Turzio, storica della fotografia e autrice del testo introduttivo della mostra di Brescia, «fin qui, il corpus della sua opera è stato rivelato solo in piccola parte. Per me, però, la pulsione empatica che la spinge allo scatto, associata a una precisa ricerca estetica, fanno di lei una vera autrice». «Più imparo su di lei», dice Maloof, “più ne resto affascinato. Le devo uno sforzo perché le venga riconosciuto un posto tra i grandi fotografi del suo tempo».Se la schiva, sfuggente Vivian sarà a suo agio in questo posto, nessuno lo sa. Quando, nel 2009, Maloof scoprì finalmente il suo nome, scarabocchiato dietro a una busta di negativi, Vivian Dorothy Maier era morta da pochi giorni, a 83 anni: i “suoi” bambini ne avevano sparso le ceneri nel posto delle fragole. Ma per quelli che hanno dubbi su quale sia il posto giusto per lei, Maloof mette su un nastro, dove la nanny ha inciso la sua voce: «Nessuna cosa dura per sempre. È una ruota: si va su, si arriva alla fine e poi devi far spazio agli altri. Non c’è niente di nuovo sotto il sole».
Irene Alison, D - La Repubblica, 6 ottobre 2010
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