10 Gennaio 2006

Francesco Fedeli. Un’autentica testimonianza

di Lino Monchieri

Chi non ha visto, almeno una volta, con irresistibile sgomento, il cupo serpentone della tragica ritirata di Russia, fermato dall’obiettivo mentre si snoda nella desolazione della steppa innevata? Quel ‘serpentone’, alla disperata ricerca d’una via di salvezza, era tutto ciò che rimaneva dell’armata italiana - l’ARMIR - mandata baldanzosamente e incoscientemente da Mussolini in Russia, a sostegno del folle disegno hitleriano di conquista all’Est.

In Russia, schierate nel bacino del Don, operavano tre divisioni alpine (Cuneense, Julia e Tridentina), una divisione di Camicie Nere, cinque divisioni regolari dell’esercito regio (Celere, Cosseria, Pasubio, Torino, Vicenza).

La guerra contro l’URSS - l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche - era stata scatenata, per ordine di Hitler, il 22 Giugno 1941, con un’aggressione a sorpresa, ad onta del patto di amicizia firmato il 23 Agosto 1939 a Mosca, tra il Terzo Reich e l’URSS.

Dopo i primi travolgenti ma effimeri successi tedeschi - che avevano lasciato credere in une rapida conclusione del conflitto (a somiglianza di quanto era accaduto nel settembre del ‘39 in Polonia, e nella primavera del ‘40 in Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Francia) - le poderose formazioni naziste dovettero prima ripiegare sotto l’impeto controffensivo dell’Armata Rossa nell’inverno del 1942, poi subire un’umiliante sconfitta a Stalingrado, nel gennaio del 1943, infine arretrare fin dentro i confini del Reich nelle successive avanzate sovietiche del 1944 e del 1945.

Il punto di svolta della guerra sul fronte orientale viene fatto risalire al decisivo attacco russo dell’inverno 1942/43. Rotto il fronte tenuto dalle truppe romene, ungheresi e italiane, i sovietici irruppero in forze dietro le stesse linee tedesche, operando a tenaglia, per accerchiare e annientare l’avversario.

L’ARMIR fu così costretto ad una rotta senza scampo.

Memorabile l’episodio di Nikolajewka, dove rifulse l’eroismo disperato della Divisione alpina ‘Tridentina’, alla quale va il merito - per altro riconosciuto dagli stessi sovietici- di aver salvato gran parte dei superstiti, dopo aver spezzato, per ben undici volte, il cerchio che le si era stretto intorno in una morsa mortale.

L’infelice e disastrosa campagna costò all’Italia ottantacinquemila tra morti e dispersi, trentamila congelati e feriti, un numero rilevante di prigionieri. Irridenti, i soldati russi incalzavano i nostri in ritirata, gridando loro per scherno: “Tikai do Matka!” (Scappate dalla mamma...).

Senza limiti la disperata ricerca della via che portava alla salvezza: emblematico ciò che si può leggere in un servizio del tempo riferito da un corrispondente di guerra: “Un soldato della colonna in ripiegamento, richiesto da che parte del fronte provenisse, rispose laconico: “Da sempre...”.

Un’attenta memorialistica e una rilevante narrativa offrono, a chi vuol conoscere per capire, testimonianze e documentazione su ciò che fu e quanto costò al nostro Paese la sciagurata spedizione in Russia.

Possono bastare pochi richiami: “La strada del davai” di Nuto Revelli; “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern; “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi; “Battaglia sul Don” di Cesco Tomaselli; “Cristo con gli alpini” di Carlo Gnocchi; “Dalla Russia ai Berici” di Curzio Tridenti.

Preziosi testimoni d’epoca sono gli eccezionali disegni ‘dal vivo’ e realizzati in ‘presa diretta’ sul fronte russo dal radiotelegrafista/pittore Fedeli. Figure e momenti che restituiscono, con verismo impressionante, le condizioni dell’ambiente e le situazioni del tempo, partecipate dall’artista con acuto realismo.

Lino Monchieri, 1996

Il testo è pubblicato in Francesco Fedeli. Impressioni di Russia, catalogo della mostra, Galleria dell'Incisione, Brescia 2006

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