14 Settembre 2003
di Franco Lucini
“Une inconstance sauvage et aveugle disposait mes pas”.
Nel 1875 Odilon Redon, che ci ha lasciato finissimi studi grafici sulla figura del centauro, scrive: “il mio disegno ha per oggetto la rappresentazione dell’invisibile con la logica e la verità del visibile”, una dichiarazione tesa a definire il procedimento creativo attraverso l’inesplicabile dualismo sogno/realtà, il bagliore dell’ossimoro, lo stesso che, nel tempo, ha percorso il cielo della ricerca estetica come una meteora, per giungere intatto fino a noi e diventare punto focale di questa mostra, che apre il trentunesimo anno di attività della Galleria dell’Incisione.
Chiara Fasser questa volta estrae dal suo conturbante cilindro il tema geniale del centauro, non imprevisto, devo dire, ma annunciato da quello strano scalpitio che per anni abbiamo avvertito intorno a noi, provenire, lontano e indistinto, dalle opere esposte.
Era l’aggirarsi guardingo di questi esseri singolari, in paesaggi nordici, dove, alla fine del XIX secolo, l’eco del mito antico è risuonata più alta, trovando nell’arte e nella letteratura la migliore trasposizione e gli esiti più mirabili. In questo clima di ricerca delle proprie origini culturali, nascono immagini smaglianti di molti artisti, coinvolti in quel processo culturale che Roberto Calasso definisce “il risveglio e il ritorno degli dei”, invocati da Hölderlin nelle sue poesie, tra le quali una dedicata al centauro Chirone.
Oggi sentiamo la ricomparsa tematica dei centauri, come una liberazione, un insperato “arrivano i nostri”, dall’inquinamento visivo dei mostri medusei, che, pietrificandoci ogni giorno di più, siamo costretti a subire. I centauri riemergono, salvifici davanti a noi nell’armonia della loro forza “naturale”, grazie a Pajevic e a Fanelli, due artisti che, Lapiti pacifici e pazienti, con approcci diversi, ma convergenti, li hanno affrontati senza remora alcuna, sicuri soltanto del coraggio della loro fantasia creativa e del loro gusto, vincendo l’ardua scommessa figurativa. Lo hanno fatto con sensibilità e con la leggerezza speciale di cui parla Italo Calvino nelle sue “Lezioni americane”. Sono riusciti a farli posare per noi, operazione non facile, stante la loro leggendaria irrequietezza, convincendoli a tornare sulla carta e sulla tela in una forma di attraente mansuetudine. Del resto, anche se davanti a un centauro di Böcklin De Chirico, in un suo commento, ne sottolinea la simpatia e la bontà, l’aspetto affatto mostruoso, va ricordato che questa figura resta invenzione straordinaria della mitologia, assurta a espressione del contrasto esistenziale tra ragione e istinto, sapienza e follia, uomo-bestia, ibrido sublime dell’ambiguità umana, spesso fonte di conflitti oscuri e insanabili.
Merito, non scontato, delle opere esposte è farci riscoprire l’elegia del centauro e insieme la sua prorompente fisicità, dissipando le ombre pesanti che celavano la sua figura, credo dal 1933, quando Mario Sironi la ripropose, potente e austera, in un affresco del Palazzo della V Triennale di Milano. Antenati di tutto rispetto si affollano dietro questo pittore, incombono ancora sui nostri autori e, non riuscendo a scansarli del tutto, desidero solo ricordare l’artefice, anonimo, di un piccolo capolavoro musivo, a Berlino dal 1846. L’opera, come sospesa in un limbo senza tempo, di epoca romana ma di stile ellenistico, proviene da Villa Adriana a Tivoli: ci mostra un centauro che si scaglia a difesa della sua compagna, a terra, azzannata da una tigre. Vita e morte, paura e coraggio, orrore e bellezza si condensano nel drammatico evento sino a raggiungere il pathos di una dolente, estrema contaminazione umana.
In un gioco raffinato di segni e colori, Pajevic e Fanelli riescono a trasmetterci la suggestione del sogno saturnino e a restituirci l’altra parte di un mondo arcano e silente dove proprio l’anatomia del centauro torna a sprigionare intorno a noi il piacere della seduzione con l’energia del fenomeno “innaturale” e il senso della sua estraneità esoterica, simbolo di diversità geologica.
Ci accorgiamo, a questo punto, che anche i Centauri appartengono a quel paese immaginifico dell’anima, un’Atlantide finalmente ritrovata, dove può rinascere, come fenice, la nostalgia intermittente dell’“età dell’oro” emersa dal groviglio del caos iniziale e sempre vagheggiata. Una favola ad occhi aperti, allusiva e polimorfa come il frutto maturo di un canto ovidiano: l’artista, illusionista suo malgrado, ha la facoltà unica e involontaria, se ne ha la capacità, di palesarcela ancora oggi, senza mai farci scoprire il trucco del suo lavoro visionario.
Sempre Redon annota nel suo diario: “Dipingere è usare un senso speciale…”: nella mano del rabdomante la canna diventa pennello.
Franco Lucini, settembre 2003
Il testo è pubblicato in Vladimir Pajevic. Centauri, Galleria dell’Incisione, catalogo della mostra, Brescia 2003