14 Luglio 2008
di Ferdinando Scianna
Erano venticinque anni che volevo tornare a Benares. Il mio mestiere mi ha portato a viaggiare molto e sono numerosi i posti che mi hanno affascinato, dove mi ripromettevo, rientrando, di ritornare. Per nessun altro luogo, tuttavia, il desiderio mi si è incrostato dentro tanto ostinatamente. Al punto che, presa infine la decisione di andarci, sono stato colto da paura. Paura di sgretolare nella delusione il mito che di quella città mi ero costruito, ormai più inventata che realmente ricordata. Venticinque anni sono molti; il mondo cambia con grande velocità, e noi con lui. La prima volta che ci andai ero quasi un ragazzo, sono ora più che maturo. Ma che cosa, mi chiedevo, mi ha così profondamente colpito in quel breve soggiorno? Niente di particolarmente originale, penso. Benares affascina tutti; è uno dei grandi luoghi della spiritualità universale, vi si incontrano fisicamente il fiume sacro e le pire delle cremazioni rituali, la morte e il brulicare della vita, è un luogo emblematico, per noi, del lontano e dell’esotico. Ma a me i luoghi cosiddetti esotici non hanno mai fatto effetto di meraviglia della diversità di spaesamento, e nemmeno di pasoliniana nostalgia per un mondo perduto, di innocente armonia. Al contrario, è un sentimento di familiarità con quel modo di essere e con le immagini nelle quali esso si rappresenta che mi sorprende ogni volta, come se vi ritrovassi la normalità le cui radici sono forse nella mia infanzia siciliana, nella consonanza che riconosco con il mondo nel quale ho vissuto quella infanzia e prima giovinezza. Ma senza nostalgia, con la sensazione, piuttosto, di capire quelle cose e goderle e indignarmene come solo ci possono indignare e si possono capire e godere le cose che, senza avere dovuto impararle, naturalmente si conoscono. Ed è questo che ho ritrovato, intatto, dopo venticinque anni, a Benares. La fisicità, per esempio, il corpo. Non so quanto ci si renda conto del fatto che il processo di rapidissima trasformazione tecnologica del nostro mondo consiste prevalentemente in un allontanamento dal corpo. Non sempre questo processo è negativo, tutt’altro; però è vero che si tratta quasi più di una mutazione che di un cambiamento.
A Benares, la prima cosa che senti, che vivi, è che il corpo è al centro di tutto, al centro della vita. Al centro della sofferenza anche, soprattutto della fatica. Comunque al centro. Intanto i corpi sono tanti, tantissimi, a rimpolpare oltre un milione di anime, pare, in un’area urbana non sterminata, che quasi raddoppiano quotidianamente, per l’arrivo di tutti quelli che da vicino e da lontano vengono nella città soprattutto a commerciare, ma anche, morti, a consumarsi nelle fiamme, vivi a purificarsi nelle acque del sacro Gange, a fare offerte agli innumerevoli dei nella città più sacra dell’Induismo, che per questo è anche una delle meno povere dell’India. E questi corpi, seminudi quelli dei pellegrini o esageratamente coperti e velati quelli delle donne di certe sette islamiche, si agitano vorticosamente. Non più del venti per cento dei veicoli che si muovono, soprattutto nella città vecchia, sono a motore, automobili o taxi collettivi a tre ruote. Il resto sono risciò, tricicli decrepiti o scintillanti fatti andare a forza di pedali e di virtuosismo acrobatico da uomini dall’aria falsamente macilenta che riescono a tirarsi dietro per ripide salite anche intere famiglie di sei persone e bagagli, tra vacche più o meno sacre piantate in mezzo alla strada, cani, capre, asinelli stracarichi, i pochi carrettini a cavalli e i molti trainati a mano, fendendo una densa massa di corpi di persone che a piedi rischiano la pelle, molte delle quali schiantate da carichi spesso mostruosamente sproporzionati all’apparente fragilità di quelli che ne hanno curve le schiene. E tutti questi corpi, quelli viventi, come quelli meccanici, urlano, ragliano, abbaiano, strombazzano, scoreggiano, lanciano richiami islamici o scampanii e nenie di Ashram, e soprattutto trillano, in tutte le note acute del pentagramma, dai più squillanti campanelli di bicicletta che esistono al mondo, direttamente collegati al girare dei raggi delle ruote, in uno strepito incessante, assordante e vertiginosamente inutile, che diventa un unico diluvio quasi inaudibile che non può più avvertire di alcun pericolo nessuno, foresta sonora che soltanto serve, io credo, ad ancora più profondamente sentire, questo sì, il misterioso spessore del silenzio che, di colpo, in un certo momento della notte, sembra letteralmente assalirti lungo i Ghat più lontani, davanti al fiume. I Ghat, gradinate lungo il Gange, sono il palcoscenico di Benares. Si sviluppano per circa cinque chilometri, cambiando nome, fisionomia e spettacolo ogni cento metri, tra i due affluenti del Gange, il Vara e l’Assi, che danno il nome indiano alla città: Varanasi. Dietro queste gradinate si affaccia sul fiume un fronte imponente di palazzi sontuosi e crollanti, testimonianza di un passato di splendori che forse è sempre stato, come adesso, contemporaneamente sontuoso e in rovina. Dimore, forti e castelli che sono stati manifestazioni di potenza, ma anche templi, omaggi al fiume purificatore, ipoteche per una morte santa, costruiti da regine, principi e rajah che non si vedono più, soppiantati dai loro vecchi guardiani o dal tempo che tutto corrode a fa marcire. Ai loro piedi, fin dal sorgere del sole, che una folla nuda e insaponata aspetta ogni mattina per offrirgli preghiere, ghirlande di fiori, barchette di foglie con lumini accesi, abluzioni igieniche e rituali, incurante dei corvi che divorano a dieci metri di distanza carogne di vacche galleggianti, fino al calare della notte, momento anche questo di riti d’acqua, di fuoco, di campane, si svolge una, ma forse la più importante, rappresentazione collettiva della città. Non vi si celebrano soltanto riti religiosi, ma anche quelli dannati della fatica. Centinaia di uomini e donne, per esempio, dall’alba al tramonto, immersi fino all’inguine nell’acqua putrida del fiume, insaponano, sbattono, storcono tra rantoli ritmati come quelli di rematori di galere, chilometri di panni che poi, stesi ad asciugare, ricoprono, splendido e multicolore patchwork, le gradinate.
Ecco, la bellezza e l’orrore, in questa e in mille altre cose, accoppiata permanente a Benares. Un’accoppiata che per me è vaccino contro ogni nostalgia estetizzante. Mi incanto davanti alla bellezza dei colori sfavillanti dei sari stesi al sole. Ma sarei felice se tornando a Benares non trovassi più i dannati del lavatoio, se non trovassi più le centinaia di donne e bambini dediti dappertutto ad impastare merda di vacca e di bufali con paglia o erba per farne torte che portano la tragica impronta delle loro mani, con le quali istoriano i muri delle case o creano paesaggi surreali di questa materia che una volta asciutta sarà un importante combustibile. La persona che mi accompagna, incuriosito della mia attenzione a documentare questo singolare artigianato, mi chiede che cosa invece ne facciamo noi della merda di vacca. Potrei dirgli che qualche volta la si lancia sui poliziotti, ma balbetto di fertilizzante organico, lasciandolo perplesso. Mi rendo conto che questo mio a Benares potrebbe essere uno dei tanti ultimi viaggi alla ricerca di immagini di un certo modo di essere e di vivere che fa parte del nostro presente ma noi cerchiamo come relitti del naufragio del passato. Eppure quel presente che noi chiamiamo passato è molto più antico del nostro. In questo modo, con lentissime trasformazioni, gli uomini hanno vissuto per secoli. Io, che ho poco più di cinquant’anni, lo ricordo, molto simile, ancora come la quotidianità della mia infanzia. Noi, dentro la nostra frenetica, recentissima trasformazione tecnologica, abbiamo la pretesa di avere acquisito il monopolio persino del presente, come se non potesse esisterne nessun altro.
È così? È inevitabile che debbano essere i fast food internazionali, gli alberghi per turisti, gli spazzolini da denti elettrici, la paccottiglia di oggetti culturalmente degradati e di falsi riti orientali per i figli annoiati e confusi dell’occidente sazio a sanare la piaga della miseria e della fatica? Mi guardo intorno e vedo con chiarezza che il virus del cambiamento accelerato è arrivato anche qui. Nell’intrico di stradine strette come calli, scivolose di liquami, risuonanti dei tamburi e delle grida festose dei funerali, formicolanti di mille artigianati, dove persino i piatti usa e getta sono fatti a mano con foglie secche tenute insieme da ramoscelli e non costano nulla, come a forza di mazzate si riduce il metallo all’impalpabile foglia d’argento con cui si decorano i buonissimi dolci, in quel labirinto dove ogni cosa sembra essere corrosa dalla lebbra del tempo e migliaia di piccoli e grandi templi meravigliosi sbocciano magicamente, grondanti di fiori, da questa rovina, dove donne elegantissime si strusciano a vacche luride e a cani con la rogna che cercano di azzannarsi la coda, dove i fetori più immondi si fondono con la fragranza dei buonissimi fritti e con l’aroma degli incensi, l’agguato della precarietà è palpabile. Negli stessi loculi bui, accanto ad antri appena rischiarati da candele, brillano le luci azzurrine dei computer, si mettono a disposizione fax e linee ISDN. L’esperienza ci insegna che certe trasformazioni, una volta innescate, possono diventare fulminee. Da un certo punto di vista vorrei che la bufera del nuovo spazzasse come un colpo di bacchetta magica la schiavitù intollerabile di tante esistenze; dall’altra vorrei che certe armonie di vita e bellezze si salvassero per sempre. Non ho ricette e non ho risposte. Nel nostro mondo in cui anche le ansie spirituali diventano mode esotiche e sono incluse nei viaggi turistici tutto compreso, molti mi hanno chiesto se questo viaggio a Benares non fosse un «viaggio spirituale». Credo che poche illusioni mi siano più estranee. Ogni viaggio è un viaggio spirituale se viaggiando altrove si viaggia anche dentro se stessi. So da un pezzo che quello che riporto indietro dai viaggi, ma più in generale dall’esperienza del vivere, oltre alle inadeguate immagini che riesco a imprigionare nella camera oscura della mia macchina fotografica e della mia coscienza, è un carico di nuove domande che vanno ad aggiungersi alle tante che già avevo accumulato.
Ferdinando Scianna, Milano, maggio 1997
Il testo è pubblicato in Ferdinando Scianna. Le sonagliere di Benares, catalogo della mostra, Galleria dell’Incisione, Brescia 2008